Con Come ti muovi, sbagli, Gianni Di Gregorio conferma il suo posto unico nel panorama del cinema italiano: un autore capace di trasformare le incrinature del quotidiano in piccole epifanie, di cogliere il valore nascosto degli errori e di restituire con ironia e delicatezza la bellezza fragile della vita. Dopo Astolfo, il regista romano affina ulteriormente il suo stile fatto di sottrazioni, silenzi, pudori e improvvisi lampi comici, componendo una commedia umana che non giudica ma accompagna, che non consola ma accoglie. È un film che rifiuta la retorica e trova invece nei gesti minuti — un sorriso timido, un bicchiere d’acqua, una finestra riaperta — la sua verità più profonda. Una riflessione gentile e al tempo stesso sovversiva, perché capace di ricordarci che l’imperfezione è la nostra forma, e che solo accogliendo gli errori possiamo trovare una felicità inattesa.L’elogio dell’imperfezione: Gianni Di Gregorio e la leggerezza dell’erroreRoma, oggi. La vita ordinata di un professore in pensione, fatta di abitudini e silenzi, viene sconvolta dal ritorno a casa della figlia Sofia con i suoi due figli, dopo un tradimento subito dal marito tedesco Helmut. La convivenza forzata porta con sé tensioni, imprevisti e nuove energie, mentre intorno ruotano la presenza discreta di Giovanna, i nipoti irruenti, e lo stesso Helmut, deciso a espiare i propri errori con un gesto folle e struggente: raggiungere Roma a piedi da Heidelberg. Tra risate, inciampi, riconciliazioni e fragilità, Come ti muovi, sbagli racconta la forza trasformativa dell’errore, la bellezza nascosta del disordine e la possibilità, sempre, di una seconda occasione.

Ogni vita è un equilibrio instabile tra slanci e cadute, tra il desiderio di avanzare e la paura di sbagliare. Come ti muovi, sbagli porta questo paradosso già nel titolo, trasformandolo in dichiarazione poetica: non il giudizio amaro, ma l’accettazione serena che gli errori sono la sostanza stessa del vivere, il segno della nostra imperfezione condivisa. Gianni Di Gregorio, con il suo cinema fatto di sospensioni e di delicatezze, d’ironie lievi e di malinconie trattenute, torna a raccontare ancora una volta il miracolo dell’ordinario, le incrinature del quotidiano che diventano rivelazione. Dal suo esordio con Pranzo di Ferragosto fino a Lontano lontano, passando per il recente Astolfo, ha tracciato un percorso coerente e appartato, eppure capace di toccare corde universali: la vecchiaia, la solitudine, il bisogno di comunità, la ricerca ostinata di un equilibrio fragile. Con Come ti muovi, sbagli questo sguardo si rinnova e si amplia, trovando nella famiglia, nei legami che si spezzano e si ricompongono, la misura di una commedia umana che non consola ma accompagna, che non giudica ma osserva con una mitezza ormai rara.

Siamo a Roma, in una routine che appare immobile, ordinata fino alla rigidità: il Professore, pensionato con studi interrotti e rimasti a metà, occupa le sue giornate tra letture erudite e passeggiate abitudinarie, il bar come luogo di ritrovo, la compagnia discreta di Giovanna, la pazienza richiesta da un domestico straniero pignolo e meticoloso. Tutto è misura, silenzio, ritirata strategica: la sua esistenza sembra difesa dal tempo, protetta da un equilibrio che non osa più mettere alla prova. Poi la vita irrompe con la sua energia contraddittoria: la figlia Sofia, tradita dal marito tedesco Helmut, ritorna a casa con i due figli, e quella quiete s’incrina all’improvviso. Gli spazi si restringono, la solitudine diventa convivenza, i giorni si popolano di voci, risate, discussioni, imprevisti. Il Professore, con il suo sorriso esitante, sospira al bancone del bar rimpiangendo la semplicità perduta, ma sa già che quel disordine è anche un nuovo respiro, un’energia che rimette in moto le giornate. Di Gregorio filma per sottrazione: la macchina da presa resta immobile, i movimenti sono minimi, lo sguardo si concentra sui volti e sulle pause, sulle porte che si aprono e si chiudono, sul rumore di una stanza abitata, sulla musica lieve della vita che s’insinua. La comicità è trattenuta, mai fragorosa: nasce da un inciampo, da una frase lasciata in sospeso, da una smorfia che rivela più di mille battute. Roma, in questo cinema, non è mai cartolina ma paesaggio morale, città quotidiana fatta di bar, botteghe, strade percorse mille volte. E in questo scenario, affiorano improvvise citazioni, lampi di cinefilia domestica, come i vecchi film western visti a pezzi in televisione, interrotti dalla pubblicità ma capaci di sedimentare nella memoria.

La storia si regge su una fragilità tenace. Il Professore cerca di ricomporre ciò che sembra destinato a rompersi: la convivenza forzata con una figlia ferita, la dignità incrinata che Sofia prova a ricostruire cercando un lavoro, la turbolenza dei nipoti che trasformano la casa in un piccolo caos vitale, la presenza di Giovanna che attende con dolce fermezza senza mai forzare. Intorno a loro si muove anche la traiettoria inattesa di Helmut, il marito adultero che decide di espiare la propria colpa con una marcia a piedi da Heidelberg a Roma: mille e cento chilometri percorsi con i piedi piagati, attraverso boschi e strade secondarie, fino a incontrare perfino un lupo. È un gesto che ha la grandezza di una parabola antica, comica e malinconica insieme: non tanto per l’eccentricità, quanto perché rivela come l’amore e il rimorso possano spingersi fino a trasformare il dolore in cammino. Questa trama lieve, quasi esile, diventa nelle mani di Di Gregorio una partitura poetica. La sceneggiatura, scritta con Marco Pettenello, raffina la maschera dell’eterno indeciso e lascia respirare i personaggi secondari: la Sofia interpretata da Greta Scarano, irrisolta e battagliera, il marito di Tom Wlaschiha che porta addosso i segni della fatica e del rimorso, i nipoti che incarnano l’irruenza della vita che avanza, e la Giovanna di Iaia Forte, ironica e tenera, capace di tenere il filo invisibile del racconto. E nel frattempo, piccoli frammenti di educazione sentimentale punteggiano la narrazione: la cotta adolescenziale della nipote per un ragazzo della rosticceria, i gesti antichi del Professore che non sa mai se avanzare o retrocedere.

L’amore non esplode mai in trionfo, ma lavora sottotraccia: muove confini, aggiusta posture, obbliga a resistere. È una forza minuta ma potente, quella che fa camminare Helmut scalzo per rimediare a un errore, quella che restituisce giovinezza a chi accetta di aprire le finestre e lasciare entrare il disordine. Il film scivola lieve perché rifiuta proclami, si affida alla modestia dei gesti quotidiani, a un bicchiere d’acqua offerto al momento giusto, un sorriso timido che scioglie una tensione. Dentro questa leggerezza c’è anche un discorso sul cinema stesso. Di Gregorio ripropone il suo personaggio, certo ma quel sé è ormai diventato una postura etica, una maniera di guardare il mondo che contagia lo sguardo. E così, tra una passeggiata e una spesa, tra un richiamo a Dante e una chiacchiera al bar, Come ti muovi, sbagli diventa racconto di seconde possibilità, elogio dell’errore come unica forma di autenticità in un tempo che idolatra efficienza e perfezione. Non consola e non giudica: accompagna, e nel suo passo breve, nel suo sguardo discreto, ritroviamo una gentilezza dimenticata. C’è anche la cronaca: presentato fuori concorso alle Giornate degli Autori a Venezia e distribuito da Fandango, il film conferma un guadagno di leggerezza e solidità narrativa rispetto ad Astolfo — un’opera che aveva già conquistato per il suo tono affettuoso e visionario — senza perdere il passo a bassa voce che contraddistingue Di Gregorio. Rispetto al malinconico Lontano lontano, qui la scrittura si apre a una dimensione più stratificata, pur rimanendo fedele a quell’arte della sottrazione che è il marchio del regista. Alla fine resta la sensazione che la saggezza non sia evitare gli errori, ma accoglierli, trasformandoli in compagni di viaggio. Come ti muovi, sbagli è una commedia umana, elegante senza compiacimenti, dolceamara senza cinismo, capace di farci ridere piano e di farci pensare piano, con quella mitezza che oggi appare quasi rivoluzionaria. Ci ricorda che è meglio inciampare che restare fermi, che l’imperfezione è la nostra forma, che il disordine, accolto senza timore, può rivelarsi inattesa forma di felicità.

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Come ti muovi, sbagli sul sito delle Giornate degli Autori.