Angelo Fioritti,

Il Piano Nazionale Salute Mentale ambisce a “sanare l’anomalia italiana” di queste ultime decadi ed a ricondurre il SSM sui binari della psichiatria clinica, già dominante a livello internazionale. Impresa rispetto alla quale, tra l’altro, mancherebbero i mezzi per portarla a termine. Non va dimenticato infatti che una psichiatria di questo tipo  costa parecchio e le nazioni che la praticano spendono da tre a cinque volte più di noi, senza per altro avere migliori indicatori di salute mentale di popolazione rispetto all’Italia.

L’inoltro alla Conferenza Unificata (CU) della bozza di Piano Nazionale Salute Mentale 2025-2030 (PNSM) da parte del Tavolo Tecnico Salute Mentale istituito dal Ministero della Salute nel 2023, ha riacceso il dibattito sullo stato in cui versa il Sistema di Salute Mentale italiano (SSM), da tempo oggetto di appelli e denunce per il suo progressivo impoverimento materiale e culturale (1). I primi interventi critici sul nuovo PNSM sono venuti da associazioni di utenti e familiari, opinion leader, associazioni professionali e voci della società civile che hanno messo in evidenza soprattutto il forte arretramento sul tema dei diritti (meccanismi partecipativi, tutele giuridiche, coprogettazione e coproduzione, tutela della dignità e della libertà, nessun riferimento alla CRPD), l’enfasi data al tema della sicurezza sociale (procedure di risk management, forte valorizzazione della psichiatria forense, sicurezza del paziente e degli operatori) e l’assenza di previsioni sia sui meccanismi di finanziamento che sui sistemi di controllo sulle effettive realizzazioni da parte degli enti preposti.

Si tratta di critiche a mio avviso pienamente fondate, rispetto alle quali è auspicabile (anche se poco probabile) che in sede di Conferenza Unificata (CU) il dibattito venga riaperto e vengano apportate le opportune correzioni.  In questa sede però, conformemente alla linea editoriale di Salute Internazionale che privilegia l’ottica strategica di salute pubblica e la dimensione globale, vorrei soffermarmi sul tipo di policy che il PNSM disegna e sulla sua collocazione nell’ambito dei sistemi di salute mentale occidentali.  Il nuovo PNSM costituisce a tutti gli effetti un netto cambio di policy nazionale. Per 47 anni l’Italia, pur nell’alternarsi di governi di vario orientamento, ha mantenuto ferma la politica di “salute mentale di comunità”, apprezzata e studiata a livello internazionale, ispiratrice di riforme in vari paesi del mondo e confermata a gran voce nell’ultima Conferenza Nazionale di Salute Mentale del 2021.

Il PNSM ora presentato è in realtà un vero e proprio piano di riorientamento dei servizi di psichiatria, di neuropsichiatria infantile e dei servizi per le dipendenze, verso un sistema assimilabile alle altre discipline mediche e sanitarie, vale a dire fortemente orientato al meccanismo diagnosi-trattamento, agli interventi biomedici, psicosociali e assistenziali, alle prove di efficacia (EBM), alle procedure, alla valutazione degli esiti. Non che una maggiore professionalità nei servizi, una maggiore strutturazione di pratiche fortemente diseguali lungo la penisola, l’adozione di strumenti di lavoro efficaci e validati siano in sè aspetti disprezzabili, tutt’altro. Anzi, a mio avviso sono da valutare positivamente le raccomandazioni a sviluppare e consolidare interventi qualificati di ambito medico, psicologico e psicosociale. Il problema semmai sta nella gravissima carenza di risorse umane e finanziarie che, secondo un accurato studio condotto dalla SIEP alcuni anni or sono, consentirebbe al SSM, con le dotazioni attualmente disponibili, di garantire da un decimo ad un terzo degli interventi raccomandati, a seconda delle regioni. Ma di ciò non si dice nulla nel PNSM, salvo demandare le realizzazioni alle Regioni ed alle ASL, non si sa con quali risorse.

Ma soprattutto il nuovo PNSM non è affatto un piano di salute mentale. Esso infatti omette, presumo intenzionalmente, di affrontare tutte le questioni di carattere politico, economico, e sociale che sono alla base dei determinanti sociali di salute  e malattia e che sono responsabili del drammatico deterioramento progressivo della salute mentale delle nostre popolazioni.

Il PNSM dice di ispirarsi ai documenti dell’OMS e della EU, nonchè al concetto di One Health. Quest’ultimo in verità è citato più volte a sproposito, come sinonimo di unitarietà della salute fisica e mentale, mentre si tratta in realtà di una visione riguardante la unitarietà della salute di tutti gli organismi viventi (animali e vegetali inclusi) nell’ambiente terrestre. Il PNSM contraddice ripetutamente il principio della “mental health in all policies” sostenuto dai suddetti documenti internazionali, che punta ad armonizzare le politiche di salute mentale con quelle economiche, educative, del lavoro, dell’abitare, della giustizia penale e civile etc… Per fare un esempio, nel PNSM viene dedicato un intero capitolo agli interventi sulla popolazione “detenuta/imputabile” e per le persone autrici di reato affette da disturbi mentali in misura di sicurezza. Ma è evidente l’omissione di qualsiasi considerazione sulla portata patogenetica delle condizioni carcerarie italiane, sulle politiche di inasprimento delle pene, sulla carenza di sistemi deflattivi del sistema carcerario, sulla immodificabilità del sistema penitenziario. Viene invece raccomandato un rafforzamento dell’intervento psichiatrico nelle carceri, una sua professionalizzazione con la finalità di prevenire i suicidi (da una decina di anni esistono protocolli per la prevenzione dei suicidi, ma non pare che il loro numero sia in diminuzione). Con ciò il PNSM pone esplicitamente il SSM a valle di ogni impostazione del sistema giudiziario e penitenziario, senza alcuna voce in capitolo sulle loro aberrazioni e divenendo implicitamente esecutore sussidiario di una funzione di controllo. Altri esempi dello stesso tipo potrebbero riguardare il disagio giovanile e le politiche scolastiche, le comorbidità con le dipendenze e le politiche sulle droghe, la sofferenza sociale e le politiche del lavoro e della casa, l’etnopsichiatria e le politiche di immigrazione.

A tale riguardo però, l’aspetto più eclatante riguarda il primo capitolo dedicato a “Salute mentale e percorsi di promozione, prevenzione e cura”. Esso deferisce i compiti in materia ai Dipartimenti di Salute Mentale (possibilmente integrati con NPIA e SerD, organizzati a matrice, auspicabilmente coordinati con i Medici di Medicina Generale i Pediatri di Libera Scelta). Ma promozione e prevenzione sono classicamente compiti coordinati dai Dipartimenti di Sanità Pubblica, a loro volta subordinati alla massima autorità locale che è il Sindaco, tenuto conto dell’intreccio sopra descritto tra politiche di vario tipo e la salute mentale, secondo una visione complessiva della società e delle comunità locali che prescinde dalla qualità (sempre apprezzabile) degli interventi sanitari.

In sostanza, il PNSM ambisce a “sanare l’anomalia italiana” di queste ultime decadi ed a ricondurre il SSM sui binari della psichiatria clinica, già dominante a livello internazionale. Impresa rispetto alla quale, tra l’altro, mancherebbero i mezzi per portarla a termine. Non va dimenticato infatti che una psichiatria di questo tipo  costa parecchio e le nazioni che la praticano spendono da tre a cinque volte più di noi, senza per altro avere migliori indicatori di salute mentale di popolazione rispetto all’Italia.

Inoltre, l’abiura di una politica di salute mentale comunitaria ci distanzia da quei paesi che da tempo hanno rilevato il nostro testimone come leader nel campo delle politiche pubbliche di salute mentale, come alcuni paesi scandinavi, il Canada, l’Australia e pochi altri. Questi paesi hanno saputo coniugare un ottimo sviluppo degli interventi di psichiatria, inclusi quelli con significato di prevenzione secondaria e terziaria, con una attenzione alle comunità ed alle politiche che sono alla base dei determinanti di salute e malattia mentale. A titolo di esempio si riporta la National Strategy for Good Mental Health 2023–2030 della Norvegia che mira a migliorare la salute mentale a livello di popolazione, ridurre le disuguaglianze e integrare la salute mentale in tutte le politiche pubbliche. La strategia adotta un approccio basato sui determinanti sociali, puntando sulla prevenzione precoce, la lotta allo stigma e il potenziamento dei servizi comunitari, con un focus su bambini, giovani, gruppi vulnerabili e popolazioni indigene Sámi. È previsto un rafforzamento della collaborazione intersettoriale tra sanità, istruzione, lavoro e servizi sociali, oltre all’uso di indicatori misurabili per monitorare i progressi annuali. La strategia prevede lo sviluppo di comunità inclusive e di ambienti scolastici e lavorativi favorevoli alla salute mentale, nonché programmi per la prevenzione del suicidio e per l’alfabetizzazione emotiva. Il Piano intende inoltre ridurre le barriere all’accesso ai servizi, promuovere l’integrazione tra salute fisica e mentale e garantire interventi tempestivi con un approccio personalizzato. Esso prevede il coinvolgimento attivo delle persone con esperienza vissuta per co-progettare politiche e servizi. La strategia si allinea con le raccomandazioni OMS e dell’UE, collocando la salute mentale come priorità di salute pubblica e sostenibilità sociale.

Il PNSM 2025-2030 che si avvia ad essere adottato in Italia segna indubbiamente la fine di un ciclo, quello aperto nel 1978 con la legge 180 e proseguito con convinzione per quasi cinque decadi. Con la malcelata ambizione di allineare l’Italia al mainstreaming della cultura psichiatrica dominante, rischia di sancire ciò che nei fatti si verifica almeno dal 2008, vale a dire un progressivo impoverimento culturale e materiale, la cui responsabilità viene rimpallata tra governo centrale, amministrazioni locali e professionisti, senza che si scorga una credibile prospettiva di rilancio.

Senza voler sopravvalutare la portata di un Piano Nazionale (occorre ricordare che il precedente del 2013 è risultato attuato per meno della metà nella maggior parte delle regioni), non vi è dubbio che questa proposta segna un altro capitolo di una storia nella quale non si intravvede ancora un lieto fine.

Angelo Fioritti, già Direttore del Dipartimento Salute Mentale-dipendenze patologiche, AUSL Bologna.

 

  1. Piano di Azione Nazionale per la Salute Mentale 2025–2030

 

Sistemi sanitari internazionali