A volte un libro sembra nascere tanto per essere scritto, quanto per essere letto. Nella «vita romena» di Tania Ionascu – nonna materna del notissimo regista Cristian Mungiu, Palma d’oro a Cannes nel 2007 per 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni – non c’è urgenza letteraria né costruzione narrativa. È un racconto che scorre piano, con l’andatura divagante dei ricordi detti ad alta voce, nella casa di famiglia a Iasi, dove l’autore li ascolta e li trascrive. Ma la casa «vera» di Tania resta quella a Cahul, in Bessarabia – ovvero quella che è oggi, in gran parte, la Repubblica di Moldavia – abbandonata con l’arrivo dei sovietici nel 1940.

IL TITOLO ORIGINALE, Tania Ionascu, mia nonna. Una biografia bessaraba (2023), chiarisce bene l’orizzonte del volume: un omaggio intimo e personale a una nonna e, insieme, una narrazione che riflette la storia complessa di questa regione tra Prut e Nistro dalla storia recente assai tormentata. Parte del Principato di Moldavia fino al 1812, poi provincia zarista fino al 1918 – periodo in cui si afferma la denominazione «Bessarabia», oggi solo storica – quindi romena fino al 1944 e infine sovietica fino al 1991, quando dal crollo dell’Urss nasce la Repubblica di Moldavia, questa regione ha conosciuto nel Novecento passaggi violenti e identità imposte. Eppure resta uno spazio intrinsecamente plurale, come mostrano i ricordi di Tania, nella cui storia famigliare si incontrano e si mescolano romeni, greci, russi, ucraini, armeni, italiani e altre popolazioni ancora. Un titolo, quello originale, certo efficace, ma sicuramente largamente opaco fuori dai confini romeni, tale per cui la «biografia bessaraba» di Tania è diventata necessariamente, in traduzione, Una vita romena (La Nave di Teseo, trad. di Anita Bernacchia, pp. 160, euro 20).

Una vita che si confonde con quella della Bessarabia stessa: guerre, fughe, famiglie divise, rubli svalutati, figlie che non riconoscono padri tornati dal fronte. Mungiu non interviene, e lascia che a parlare sia la voce sobria, centrata, senza pathos né introspezione, di Tania, ormai anziana, che contabilizza con nostalgia la dolceamara storia di una famiglia sparpagliata ai quattro venti dalla Storia. Il registro non è cinematografico: alcune scene si visualizzano facilmente, ma si resta sempre in un teatro della mente, non su un set. La struttura non è romanzesca, ma genealogica: chi è nato, chi è morto, chi ha sposato chi. La scrittura è piana, a tratti naïf, volutamente anodina. Una lingua che non cerca effetti, ma si limita a nominare. Le apparenti lacune narrative – sentimenti, sogni, amori – si intuiscono nei non detti. Alcuni nomi mancano, altre figure restano ai margini. Le disgrazie emergono perché hanno lasciato traccia. Il resto si perde.

Il libro ha anche una dimensione documentaria: molte fotografie d’epoca, un albero genealogico disegnato a mano. La voce di Tania ha qualcosa in comune con quella di Anna Colombo, che nel suo memoir Gli ebrei hanno sei dita racconta con simile sobrietà, anche lei ormai anziana, una vita attraversata dalla Storia, dove ogni passo – scelto o imposto – diventa parte essenziale di ciò che si è.

L’AUTOBIOGRAFIA di Tania si ferma, dopo il rifugio in Romania negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale a seguito dell’avanzata sovietica, al primo giorno di scuola della figlia, Mioara. Qui la staffetta passa al figlio di quest’ultima, Cristian Mungiu, che prende la parola per raccontare stavolta la «sua» Tania. Nei ricordi d’infanzia del regista i nonni sono ciò che fanno più che ciò che dicono: una torta offerta, un frutto dell’orto regalato, i quotidiani gesti d’affetto. Perché l’amore, soprattutto in famiglia, si manifesta spesso così: senza parole. Il ritorno a Cahul, molti anni dopo, conferma che di quella casa e di quel tempo, ingigantiti e questi mitizzati nel ricordo, non resta più nulla. Neppure il cimitero è più al suo posto.
Quello che resta non è tanto la memoria, ma il gesto stesso dell’ascoltare. Non per ricostruire tutto, ma per non dimenticare del tutto. Perché nessuna storia, per quanto piccola, dovrebbe andare persa nel silenzio.