Il ds dell’Atalanta si racconta: “Da calciatore tanta corsa e pochi gol, a Foggia pensavano fossi il nuovo Shalimov. I colpi migliori? Amrabat e Zaccagni. Il rimpianto? Scamacca”


Andrea Elefante

Giornalista

12 settembre 2025 (modifica alle 08:15) – MILANO

“No, ‘La rivincita’ non è esatto. Da calciatore ho fatto il massimo di quello che potevo fare”.

Che giocatore era Tony D’Amico? 

“Mezzala di grande corsa, però non facevo gol neanche solo davanti alla porta. E poi rompic…: litigavo con tutti, anche con i compagni”.

Un giocatore in cui si rivede e l’idolo di allora.

“Azzardo: Guendouzi. L’idolo era Leo Junior, e mi piaceva un sacco Paulo Sousa”.

La carriera da calciatore. 

“Calcio e vita. Lascio casa anche tardi, a vent’anni, dal Chieti vado alla Cavese. Partiamo dalla D e sfioriamo la B, semifinale playoff persa contro il Foggia. Da mediano divento mezzala con Campilongo: un precursore, 4-3-3 quasi a uomo in fase difensiva”.

“La notte della festa promozione in C1 il mio miglior amico di quella squadra, Catello Mari, muore in un incidente stradale. Quel giorno è morto anche il ragazzo spensierato che ero”.

Poi il fatal Foggia diventa crocevia della sua carriera. 

“Il Foggia sceglie Campilongo, io faccio un casino per andare con lui: un ‘caso Koopmeiners’ di vent’anni fa… Aspettative mostruose, ho il numero 10 anche se non sono un 10, mi battezzano ‘il nuovo Shalimov’. Gioco poco e male, mi fischiano in ventimila. Ma l’anno dopo con Filippo Fusco direttore e Fabio Pecchia allenatore inizia un’altra carriera, il ‘pacco D’Amico’ diventa il capitano, e applaudito”.

Perché smette di giocare? 

“Vivevo di motivazioni, mi scelsero perché pensai di essere giocatore da Serie B quando arrivai a Empoli, e invece ci stetti solo sei mesi. Corsi me lo ripete sempre: ‘Bravo dirigente, però quanto eri scarso quando giocavi’. Non era vero, ma se sono stato in Lega Pro per 15 anni e in B soltanto per sei mesi, vuol dire che ero da Lega Pro”.

Il compagno più talentuoso? 

“Fabio Grosso a Chieti: era già fortissimo. E trent’anni dopo, parliamo di calcio come allora”.

Quando e come diventa ds? 

“Sono a vedere le finali Primavera e ritrovo Fusco, nel frattempo al Bologna. Mi chiede come ho visto Mattia Vitale, giovanili Juventus. Faccio una relazione verbale, me ne chiede un’altra, un’altra, poi cambia domanda: ‘Devo rifare l’area scouting: ci sei?’. Me lo chiede di nuovo quando va a Verona, poi l’upgrade: ‘Tu sei tagliato per fare il ds’. Non ci credevo, inizio a farlo quando lui – stagione 2017-18 – si dimette. Gli dico: ‘Mi dimetto anche io’. ‘No, tu resti’. L’estate dopo Maurizio Setti apprezza un paio di cessioni: ‘Se te la senti, il ds lo fai tu’. Sensazione pazzesca, quando ho telefonato a Federica, mia moglie, mi tremava la voce”.

Anche lei come Gattuso, “Povera mia moglie, cosa le ho fatto passare in questi anni”? 

“La mia ha due nomi: Santa e Federica. È lei la mia grande forza”.

“Nel settembre 2015, titolo della tesi: ‘Diario dello scout’. Concetto base: mai fermarsi alla prima impressione, un giocatore va anche ‘immaginato’ nella sua evoluzione”.

Lei a Verona decideva tutto, anche la marca dell’acqua minerale: com’è stato passare a lavorare in equipe, con Luca Percassi? 

“Difficile all’inizio, molto formativo: a Verona ero troppo istintivo a volte, mi è servito a disciplinarmi. Ma i miei principi restano gli stessi: lealtà, rispetto, l’importanza di risolvere problemi quotidiani”.

Davvero è stato vicino al Milan? 

“Ho letto troppe cose: di sicuro non mi sono mai sentito, neanche per un giorno, fuori dall’Atalanta”.

Il colpo più importante da ds? 

“Quello che verrà. Potrei dire Amrabat preso in prestito e rivenduto a 20 milioni. Ma anche Zaccagni, trovai la chiave per aiutarlo a maturare caratterialmente. In ordine d’importanza non saprei scegliere”. 

“Quando ero a Verona, Scamacca: non spinsi abbastanza per prenderlo dal Sassuolo”. 

L’aneddoto più divertente? 

“Io e Margiotta chiusi in una stanza di un hotel a Milano dalle 12 all’una di notte per strappare Dawidowicz al Palermo, vietando ai suoi agenti di usare i telefoni, senza mangiare. E preso il giocatore ripartiamo, ma buchiamo in tangenziale: bloccati fino alle quattro del mattino”. 

Il difetto più grande del mondo del calcio? 

“Non si crede a chi dice la verità”. 

“Fumo troppe sigarette, durante il mercato troppissime: fino a due pacchetti”. 

Quante volte carica il telefono in una giornata? E quante volte le viene da lanciarlo? 

“Tre o quattro volte. Ma è più facile che mi venga da far volare sedie: il telefono mi serve troppo”. 

E’ più bravo a comprare o a vendere? 

“Non devo dirlo io. Diciamo che vendere bene è possibile se hai comprato bene”. 

Più stressante l’agosto 2024 per affrontare il caso Koopmeiners o il 2025 con Lookman? 

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“Casi molto simili e non piacevoli da vivere. Devi gestire l’oggi dimenticando che sono ragazzi con cui ieri ha vissuto mille cose. Sei costretto ad andare oltre certe emozioni che hai ancora addosso: è dura”.