. – .
“O julgamento”, il processo. Senza specifiche e con l’articolo determinativo. Nel quarantesimo anno dalla fine dell’ultima dittatura militare, questo è per il Brasile il giudizio che ha portato alla condanna nei confronti di Jair Bolsonaro e sette tra i suoi più stretti collaboratori. Il primo contro un ex presidente per intento di golpe nonostante i numerosi casi nei meno di due secoli di storia della Repubblica, di cui tre vittoriosi. Sette degli otto imputati, inoltre, sono vertici delle forze armate – incluso l’ex capo di Stato, capitano – finora considerate architrave della nazione e, per questo, intoccabili. La sentenza della Corte Suprema – arrivata con una maggioranza di quattro voti su cinque – è, dunque, storica. Il suo significato va ben al di là del futuro dell’ex leader che dovrà scontare 27 anni di carcere. Riguarda la solidità della relativamente giovane democrazia brasiliana, chiamata a fare i conti con uno dei propri tabù: l’interventismo dei generali in politica. Una tendenza sopita per quasi tre decenni dopo la caduta del regime nel 1984, in cambio della cancellazione, di fatto, delle colpe del passato. L’irruzione del “fattore Bolsonaro” l’ha fatta riesplodere in tutta la sua dirompenza. Il risultato è stato l’assalto alle sedi dei poteri dello Stato a Brasilia dell’8 gennaio 2023.
Due anni e mezzo dopo, alla Corte suprema è toccato farsi carico della vicenda. Non è la prima volta che il tribunale assume decisioni ad alto impatto politico. Lo ha fatto con ampie oscillazioni, come ha dimostrato la gestione del maxi-scandalo di corruzione “Lava Jato” che, una decina di anni fa, ha travolto il centrosinistra e lo stesso Lula, infine scagionato. Il protagonismo dei giudici, al di là del contenuto, mette in luce una debolezza strutturale della democrazia brasiliana: la riluttanza del Congresso ad assumersi deliberazioni scomode. Il sistema elettorale ha favorito la moltiplicazione dei partiti, molti piccoli o piccolissimi, senza programma né obiettivi specifici. Formano il “centrão”, il grande centro pigliatutto, senza il cui sostegno nessun presidente o grande formazione può governare. Il risultato sono infinite contrattazioni che, spesso, si risolvono in un nulla di fatto. Un fenomeno ulteriormente acuito durante l’attuale presidenza Lula – la terza -, dove la preponderanza delle forze conservatrici, più o meno estremiste, è schiacciante. Di recente, di fronte al proliferare del populismo digitale, di campagne d’odio online e di fake news, il magistrato Moraes ha assunto un ruolo di primo piano di contrasto, tanto da finire sanzionato dall’Amministrazione Usa, alquanto suscettibile sulla questione. Non è un caso. Donald Trump è l’altra variabile determinante “do julgamento”.
Già in vista del processo contro l’alleato e più fedele emulo Bolsonaro, con la solita declinazione mercantilista della politica internazionale, il capo della Casa Bianca ha imposto al Paese latinoamericano dazi al 50 per cento alle esportazioni nazionali in vista dell’inizio del processo. Vari prodotti però sono stati esentati dagli aumenti. Washington potrebbe, come più volte tuonato, rincarare la dose in caso di condanna. Eppure il processo ha seguito il suo corso. Né il governo né la magistratura hanno ceduto alle pressioni. Anzi, Lula cerca di portare la battaglia nelle sedi internazionali. Un inedito da parte delle tante nazioni nel mirino di The Donald. Il fine del politico-simbolo del centro-sinistra latinoamericano è quello di riaffermare il multilateralismo in un momento in cui l’intera architettura mondiale rischia di crollare sotto il peso di “capi soli al comando”. Il presidente brasiliano cerca anche di coagulare il Sud globale, di cui si considera referente, stritolato dai Grandi, vecchi e nuovi. Prima, però – e questa è la parte forse più ardua della scommessa – il Brasile deve riuscire a risanare le ferite interne, in un momento di massima polarizzazione. Il 42 per cento dei cittadini pensa che il leader dell’ultradestra sia vittima di una persecuzione politica. Un “Paese” con cui il resto del Paese – e i suoi dirigenti, a partire dal presidente – dovranno aprire un canale di dialogo. Nel frattempo, dai prossimi giorni, la destra sarà chiamata a scegliere se cavalcare l’onda, acuendo le tensioni, o trovare canali di mediazione. Anche prima della condanna, Bolsonaro non avrebbe potuto candidarsi fino al 2030, una punizione per avere cercato di delegittimare il sistema di voto nell’ultima campagna. La competizione del 2026 si avvicina e i conservatori non hanno ancora indicato il successore. Non è escluso che si tratti di un nuovo “Trump tropicale”. Oppure “o julgamento” potrebbe segnare il principio di un nuovo corso.
