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Se Eugenio Finardi dovesse definirsi in una canzone sceglierebbe Extraterrestre. Una canzone, un successo ma non nel 1978. «È un flop totale. Mi tirano i sassi, dicono che sono un traditore. È la storia di due miei amici che sognano sempre di essere da qualche altra parte. Attraverso di loro cerco di mettere in musica l’impossibilità di scappare da se stessi nel momento in cui la deriva violenta sta tradendo i nostri sogni. (…) Sul retro del disco metto la canzone Cuba: “È che viviamo in un momento di riflusso, e ci sembra che ci stia cadendo il mondo addosso, che tutto quel cantare sul far la rivoluzione, non sia stato che un sogno, un’illusione”. Se questo è un tradimento, allora ho tradito per tutta la vita, cercando di capire le dinamiche della storia e di mettermi in discussione. Il riflusso, negli anni 80, c’è stato eccome, e quando 12 anni dopo l’ho riproposto, Extraterrestre è stato un grande successo».
La madre ipovedente
Eugenio Finardi nasce in una Milano che lui al Corriere della Sera definisce particolare. «Mia madre, americana, venne in Italia nel 1948 per studiare alla Scala. Si innamorò di mio padre, un dirigente che veniva da una famiglia di musicisti». E questo, insomma, riassume già la sua vita. Una vita fatta principalmente di musica. E quando conosce Franco Battiato capisce chi era… «La musica sì, era l’unica cosa dentro di me in maniera univoca, perché mia madre mi aveva allevato come un cantante – racconta ancora allo storico quotidiano di via Solferino – Era albina e non poteva salire sul palco perché ipovedente; quindi si limitò ai recital e all’insegnamento. Quando insegnava mi portava con sé».
La guerra
Inizia a scrivere, a cantare ma dentro di sè c’è un forte dualismo. «Mentre mi mettevo al servizio del Movimento mi iscrivevo al Pci. Vale a dire che per quelli che la pensavano come me che ero uno di destra. Poi il segretario della mia sezione mi invitò a non rinnovare la tessera per una critica all’invasione sovietica dell’Afghanistan. C’eravamo tanto spesi contro la guerra in Vietnam e ora ne portavamo noi una a Kabul? Per di più io avevo perso la cittadinanza americana per non andare a combattere quella guerra…».
Poi ancora: «Avevo la doppia cittadinanza. Nel ’71, per fortuna, non ero stato sorteggiato per andare a combattere, però la Military Intelligence Agency aveva i miei test attitudinali e, sapendo che parlavo il francese, spedirono il console di Milano ad arruolarmi.
Avrei dovuto interrogare i vietcong. Rifiutai».
Le droghe e la figlia con la sindrome di down
Non c’è solo la guerra c’è anche la droga nella vita di Eugenio Finardi. Un capitolo della sua vita che non ha cancellato: «Ho provato tutte le droghe e ne ho pagato le conseguenze. Ci sono entrato come tutti, era facile, si faceva. C’è anche da dire che sono sempre stato trattato con sostanze. Da piccolo, come molti bambini americani, mi davano la pillolina perché ero iperattivo. Hanno smesso di darmela a 14 anni e a 16 l’ho sostituita con le canne. Di eroina si moriva per overdose, ma io ho avuto più amici morti per cocaina o per abuso di alcol. Finché mi è nata una bimba con la Sindrome di Down…».
A quel punto, racconta ancora al Corriere della Sera, «sono entrato in comunità e ho fatto il percorso terapeutico». Senza droga e senza partito. Gli autonomi lo accusano. Se la prendono con lui, lo accusano: «Per loro ero un venduto al sistema. La musica doveva essere gratis. Ricordo un concerto con la PFM nel Palasport di Padova. Hanno preso un autobus e sfondato la porta. Avrebbero potuto ammazzare decine di persone. La prima tournée dal vivo la faccio con Fabrizio de André. Gli chiedo perché ha scelto me, e lui dice che ha bisogno di un cantautore di assalto che svuoti dei sassi le tasche dei ragazzi».
Sanremo
Poi nel 1985 va a Sanremo. «Però la prima volta sono stato obbligato dal contratto con la Fonitcetra: il management si riservava di decidere tre presenze dell’autore. Pensavo fossero le fiere del disco, invece mi ritrovo a Sanremo. Presenta Pippo Baudo. Sono così suonato che mentre salgo sul palco mi accorgo di avere giù la lampo dei pantaloni. Mi giro per tirarla su, Pippo dice: “Perché hai fatto quella mossa?” Alla sprovvista rispondo: “Portafortuna!”. “Allora rifalla!”». «La seconda volta che ci sono andato, questa volta per mia decisione, ho passato mezz’ora su quella scala con la farfallina tatuata di Belen impataccata al naso perché Celentano andava lungo nel monologo. Tu dirai: la mezz’ora più bella della tua vita, sì, se non stesse parlando Celentano…».
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