di
Greta Privitera

C’è chi scappa per l’ennesima volta, ma ora molti portano via anche porte e finestre: «Non torneremo». E per un passaggio servono fino a 300 dollari

Il punto di vista privilegiato è il terrazzo di Aseel Nasser. La panoramica parte da sinistra: palazzo bianco su, palazzo marrone a terra, parcheggio raso al suolo, capannone grigio mezzo su e mezzo giù, macerie indefinite, strada dissestata. Al centro di questo cerchio infernale, baracche e tende colorate costruite con scampoli di lenzuola e cartoni.

Benvenuti ad Al-Rimal, uno dei quartieri a ovest di Gaza City, la città diroccata chiamata casa da un milione di persone e nuovo fronte dell’esercito israeliano. «Evacuate tutti», recitano in arabo volantini che piovono dal cielo. «Trattasi di una roccaforte di Hamas», si giustifica da settimane il governo di Benjamin Netanyahu che dichiara di aver preso il controllo di oltre il 40% della città e di aver demolito 50 torri. Si evacua, si scappa magari per la quinta, sesta, settima volta quando ancora ci si può immaginare un futuro



















































In viaggio

Lo hanno già fatto circa duecentomila persone. Lo stanno per fare Aseel e sua sorella Dina: «Qualche giorno fa, l’area in cui viviamo è stata dichiarata “zona rossa”. Il portavoce dell’esercito ha pubblicato una foto che mostra gli edifici segnati come obiettivi, inclusi diversi palazzi che si trovano proprio accanto a noi. Alcuni sono già stati fatti saltare in aria. Prima della guerra, Al-Rimal era uno dei quartieri più prestigiosi di Gaza, oggi è una trappola per topi». Le ragazze stanno progettando il viaggio verso sud, al campo profughi di al Mawasi, «anche se sappiamo che non c’è più nemmeno un pezzetto di spiaggia libero».

Breve storia del loro personale calvario: sono di Gaza City, nell’ottobre 2023 perdono la casa fatta esplodere da un missile, scappano a Rafah, si spostano di tenda in tenda finché a marzo 2025 tornano in città, in un appartamento che Aseel definisce «decente». Nella Gaza bombardata, «decente» è un edificio con il soffitto a pezzi, due buchi sulla facciata, un pavimento senza più piastrelle. «Meglio questo che un anno e mezzo in una tenda invasa da insetti, dove non potevamo lavarci», scrive. Aseel e Dina chiedono se qualcuno può aiutarle a racimolare i soldi necessari per potersi comprare un’altra tenda. Andarsene ha un prezzo che molti residenti non possono più affrontare. Un passaggio in macchina arriva a costare anche 300 dollari, la benzina 25 al litro, una tenda mille, una stanza in affitto mille al mese.

Najeeb Kaddoumi non se ne andrà. «Non importa se ci bombarderanno, non importa più niente», dice al telefono. Ha 42 anni. All’inizio della guerra è rimasto ferito in un bombardamento, ha tre figli «non ho una macchina, non ho soldi per pagarmi un passaggio e non ho più forze per traslocare un’intera famiglia». Che vuol dire trascinare a piedi per chilometri e chilometri borse zeppe degli ultimi stracci, pentole, libri rimasti dalla vita precedente. Sua sorella e suo padre lo implorano di raggiungerli verso sud, ma Najeeb non vede futuro: «Andarmene per cosa? Abbiamo fatto tre traslochi, io sono già morto. Ci dicono di spostarci nelle zone umanitarie ma bombardano anche quelle. Non ha più senso», continua. Come Najeeb la pensano alcuni dei suoi vicini di casa. 

Le vittime più fragili

I racconti sono strazianti: restare vuol dire morire? Scelgono di non evacuare anche gli operatori sanitari: «Non possiamo lasciare i nostri pazienti, hanno bisogno di noi», dicono. Non possono scegliere, invece, i poverissimi, gli ammalati, le persone sole, gli anziani. Da al-Mawasi ci scrive Sami Abu Omar: «Qui c’è talmente tanta gente che non si cammina quasi più. Come possono pensare di fare arrivare altre centinaia di migliaia di persone? Creeranno campi di concentramento? Questo è il progetto di pulizia etnica di Netanyahu».

La distesa di tende parte dal mare e arriva a tre chilometri nell’entroterra: le Nazioni Unite parlano di quasi 48 mila persone per chilometro quadrato. Tra il 18 marzo e il 16 giugno 2025, l’Onu ha registrato 112 attacchi nella zona considerata umanitaria. Sono morte 380 persone. Nella marcia della disperazione che costeggia il lungomare, tra i carretti e le auto si vedono sfilare uomini con porte e finestre sotto le braccia. Ci spiegano: «Chi lo fa è perché pensa che non tornerà mai più a Gaza City».

12 settembre 2025