KNEBWORTH (INGHILTERRA)
Musica, maestro. Sul leggio di un palchetto, lo spartito della canzone suonata la sera prima al basso: My Sharona dei californiani Knack. Nelle librerie intorno, oltre alle traduzioni di sue opere da ogni anfratto del mondo, centinaia di libri: Leonard Cohen, Salvador Dalí, B. B. King, una storia delle cattedrali inglesi. Perché questo non è il seminterrato di un musicista, ma lo spiovente fienile di un crooner della letteratura: Ken Follett. Nella sua maestosa tenuta e magione di campagna inglese a Knebworth, a un’oretta di treno a nord di Londra. In giardino, la statua di James Keir Hardie, il primo deputato laburista che entrò a Westminster, nel 1892.
«Bella, vero? Abbiamo comprato questa casa con mia moglie», l’ex deputata laburista Barbara, «ventisette anni fa. Allora questo fienile era un garage per tagliaerba e attrezzi, poi abbiamo deciso di trasformarlo. Qui suoniamo e balliamo con una cinquantina di amici», dice il 76enne scrittore bestseller, cinque figli, sei nipoti, tre labrador, 37 libri tradotti in 40 lingue, 195 milioni di copie vendute in 80 Paesi dopo i flop iniziali e il successo rivelatore della Cruna dell’ago nel 1978. Ora Follett pubblica il suo nuovo, epico romanzo, Il cerchio dei giorni (Mondadori), con protagonisti il minatore Seft e la sacerdotessa Joia per uno dei più affascinanti misteri del mondo: Stonehenge, il leggendario e circolare sito neolitico poco fuori Salisbury, patrimonio dell’Unesco e altare di pellegrinaggi mistici e venerazione globale.
a cura della redazione Cultura
15 Ottobre 2024
Follett, perché Stonehenge?
«Perché è un mistero. Cosa sono quelle pietre? Chi le ha messe lì? E come hanno fatto, visto che sono pesantissime? Non avevano la ruota! Insomma, un’opera che sembrava impossibile, ma che per questo è ancora più ammaliante».
Ma perché Stonehenge è un mito mondiale?
«Perché è enorme e criptico insieme. Ciò innesca teorie e speculazioni, stimolando mente e fantasia della gente. È incantevole, per tutti. Perciò ho deciso di costruirci questa storia intorno. È come un festival rock per gli adepti dell’annuale solstizio e del sole di mezza estate. Per me, invece, è un luogo spirituale come le mie amate cattedrali. Quando mi hanno permesso di andare nel centro del sito, ho pensato: “Dio mio”. Qualcosa di indescrivibile, persino per me. Ho provato venerazione e una presenza impercettibile. Qualcosa per noi incomprensibile».
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E lei è pure ateo.
«Già. Ma per esempio le cattedrali mi hanno donato un senso di pace mai provato prima. Ho capito che ne avevo bisogno. Qualcosa di simile capita ai protagonisti di questo libro. Stonehenge è qualcosa di sacro, supernaturale. Qualcosa di cui la gente ha bisogno. Ma non puoi scrivere un romanzo soltanto sulle cose. Servono le persone, che nell’età delle pietra avevano i nostri stessi interessi: figli, amore, lavoro, e quella che io chiamo crociate».
Nel senso religioso?
«No, quelle furono spedizioni crudeli e malvagie. Intendo gli umani che si uniscono per uno scopo superiore».
E questo libro a lei cosa ha dato?
«Tutto, come i precedenti. Scrivere è il cuore della mia vita, lo farò per sempre e non ho altri desideri prima di morire. È qualcosa cui l’intelligenza artificiale non potrà mai raggiungere, come l’IA non potrà mai essere Picasso: perché non sa rompere le regole. Investire due o tre anni su un libro è la cosa più appagante per me. Anche perché mi pagano una fortuna adesso».
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Ma agli inizi non è stato così.
«Vero, almeno fino a La cruna dell’ago, Triplo e Il codice Rebecca del 1980. Solo allora, dopo tre successi, ho deciso di non fare più il giornalista e diventare uno scrittore a tempo pieno».
Ma il libro più importante della sua vita qual è?
«Vivi e lascia morire di Ian Fleming».
Perché?
«Lo lessi a 12 anni e fu la cosa più bella che potesse accadermi sulla Terra. Una benedizione. Eccitante, appassionante, con una scrittura fenomenale. Da allora lessi tutti i libri di Bond e, ogni volta che scrivo, oggi mi prefisso questo obiettivo: i miei lettori devono provare le stesse travolgenti sensazioni che mi ha dato Fleming».
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Ha mai pensato di scrivere un romanzo contemporaneo, invece dei suoi storici?
«Preferisco il passato. Perché ne conosciamo la fine. Per un romanzo è meglio, soprattutto se ha un finale felice. La vita non ce l’ha. Ecco perché preferiamo i romanzi alla vita».
E oggi respiriamo ben poca positività nel mondo.
«Non provavo le stesse sensazioni dalla crisi dei missili di Cuba nel 1962».
L’ascesa delle estreme destre in Occidente accresce il suo pessimismo?
«Ovvio. Qui da noi, Farage è una minaccia serissima, nonostante la Brexit sia stato un errore madornale. Ma molta gente vuole oramai sentire solo slogan, illudendosi di poter avere tutto e subito. Gli operai e i forgotten men voltano le spalle a chi ha dato loro i diritti negli anni, ora affidandosi ai populisti. Ma la politica è qualcosa di molto più complicato e ingrato. Così l’estrema destra dilaga non solo in Usa e Uk ma anche in Francia, Italia, Germania. Viviamo tempi molto pericolosi. Le tensioni tra comunità sono alle stelle, negli Stati Uniti e in Europa. Non solo per la crisi dei migranti: per sempre più persone, il problema sono le etnie diverse. E questo è un enorme problema».
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C’è chi la accusa di essere un ricco “champagne socialist”, un radical chic.
«Sono fiero di esserlo. Adoro i ribelli, anche perché piacciono ai lettori. Ma faccio parte dell’establishment adesso. Del resto, se negli anni Sessanta manifestavo contro la guerra in Vietnam a Grosvenor Square a Londra, ora nella stessa piazza c’è una statua dell’orribile Reagan, che profetizzò la politica di show e performance. Se pure uno come Trump dovesse vincere nel Regno Unito, potrei trasferirmi a Firenze».
Ma anche in Italia governa la destra.
«Allora ce ne andremo tutti in Danimarca».
Il libro
Il cerchio dei giorni di Ken Follett (Mondadori, trad. A. Raffo, pagg. 704, euro 27), esce il 23 settembre. Ken Follett sarà a Milano il 12 ottobre alle 18.30 al Teatro Carcano durante BookCity. I lettori potranno inviare le loro domande: www.librimondadori.it