di
Anna Paola Merone
Francesco Merola: «Gli venne contestata la vicinanza ai boss, ma fu Falcone ad archiviare»
Qual è il primo ricordo che ha di suo padre?
«Andavo all’asilo, avevo cinque anni. Volevo che anche il mio papà mi accompagnasse qualche volta, ma aveva mille impegni di sera e la mattina riposava. E poi era famosissimo e, mi spiegava, la gente lo avrebbe sopraffatto… Ma un giorno uscendo dalla scuola vidi che mi aspettava. Una sorpresa che mi fece battere fortissimo il cuore, corsi verso di lui che mi abbracciò e mi prese per mano. Fu un regalo enorme, il più grande di tutti, che porto dentro di me e che mi commuove ancora oggi».
Francesco è uno dei tre figli del re della sceneggiata, Mario Merola. Con la benedizione dei fratelli Roberto e Loredana, ha raccolto dal padre il testimone di una carriera vissuta fra successi internazionali — da Lacrime napulitane a Lo zappatore «che non si scorda la mamma» — ed eccessi. «Avevo 9 anni, forse 10, quando mi sentì cantare Chiamate Napoli 081. Capì che avevo stoffa e divenne il mio primo, severissimo, fan».
Merola è stato un grande scopritore di talenti. Lei ne è mai stato geloso?
«Ha lanciato Gigi D’Alessio, Massimo Ranieri, Nino D’Angelo… In famiglia è stato tutto più difficile: mi voleva perfetto e mi ripeteva che non voleva un erede, ma un figlio. Poi per dieci anni abbiamo lavorato fianco a fianco e ora porto avanti la sua sceneggiata. Da figlio e da erede».
Cosa le chiedono ai concerti?
«I grandi classici, Zappatore, Guapparia, L’urdemo emigrante… E vogliono la pagellina di papà».
L’immaginetta votiva, come se fosse un santo?
«Sì, quella che si fa per il trigesimo. Ne porto sempre una certa quantità con me, da distribuire».
Suo padre veniva da una famiglia poverissima e, prima del successo, lavorava come scaricatore al porto di Napoli. Lei e i suoi fratelli che infanzia avete avuto?
«Siamo stati coccolati da mamma e viziati da lui. Le biciclette, il motorino… non ci ha fatto mancare nulla».
Lei ricevette in regalo, a 13 anni, anche una Ferrari elettrica.
«Un dono bellissimo del mio padrino di battesimo Franco Franchi, del quale porto il nome. Era molto amico di papà e per me, dopo Totò, è stato il più grande».
Franchi e suo padre vennero coinvolti insieme in una inchiesta su Cosa Nostra dal giudice Falcone. Per suo padre era il secondo avviso di garanzia in pochi anni. Fu poi prosciolto da ogni accusa, ma la cosa fece molto rumore.
«Fu lo stesso giudice Falcone a procedere all’archiviazione. A papà fu contestata la vicinanza ad alcuni boss. E lui rispose a tutto. Parlò di Michele Zaza, con cui aveva giocato a carte al Regina Isabella, di Michele Greco il Papa per il quale cantò a Catania. Spiegò che andava a cantare dove veniva scritturato, poi faceva le foto a fine concerto e, dopo rilasciava regolare fattura e la serata finiva. Erano clienti. Era la verità e fu prosciolto».
La grande debolezza di suo padre è stata il gioco. Questo lo ha esposto di più?
«Diceva “se non hai mai giocato non puoi capire”. Gli piaceva giocare ovunque e a tutto e aveva una passione per il Lotto, la roulette dove aveva i suoi sei numeri fortunati, lo Chemin de fer… Giocava a scopa e a poker, nei casinò e nei camerini del teatro».
Quanto ha perso?
«Tanto. Ma solo soldi suoi e ha pagato tutto. Mai lasciato debiti in giro».
Sareste miliardari oggi?
«Forse. Lui diceva che aveva sperperato 40 miliardi di lire, ma con leggerezza».
I suoi vizi, oltre al gioco?
«Ripeteva che teneva tre passioni: il gioco, la famiglia e il cibo».
Non dimentica le donne?
«E chi è che non sbaglia…».
Sua madre era gelosa?
«Papà è tornato sempre a casa, non ha mai lasciato la famiglia. Lei si dispiaceva, ma lo aspettava. Badava a noi, gli stirava le camicie impeccabili… Ricordo però che una volta si arrabbiò moltissimo e lui si tatuò sul petto, a sinistra, la scritta “Rosa vita mia”. E gli disse tu stai sul mio cuore».
Altri tatuaggi?
«Il Volto santo sul braccio».
In cucina ci sapeva fare?
«Il suo piatto preferito era lo spaghetto alla Mario, con pomodoro fresco e burro. E poi andava pazzo per i frutti di mare e il pesce».
Fu proprio il cibo a tradirlo alla fine…
«Fu ricoverato in rianimazione dopo aver mangiato delle cozze crude, ma aveva già una salute malferma. Il suo cuore cessò di battere qualche giorno dopo, il 12 novembre del 2006. Aveva 72 anni ed era stato in più occasioni in condizioni critiche. Una volta rimase in coma a lungo e ci disse che gli era apparso Padre Pio. È morto perché non ha voluto rinunciare a cantare. Il professore Zangrillo glielo aveva detto chiaramente».
Il medico di Berlusconi?
«Sì, glielo consigliò lui. Mio padre stimava molto Berlusconi e sostenne anche la sua discesa in politica, gli portò voti. E così, su sua indicazione, andò a visita da questo luminare».
Cosa gli prescrisse Zangrillo?
«Se volete vivere, gli disse, non dovete più cantare. E papà rispose: voglio morire come ho vissuto, cantando. E intensificò gli impegni per stare vicino al suo pubblico».
Parlava della morte?
«Ne parlava e non ne aveva paura».
Alle sue esequie in piazza Mercato parteciparono quasi cinquantamila persone.
«Volle lui questo funerale in grande, con serenità lo aveva immaginato così. La camera ardente, come aveva lasciato detto, restò aperta 48 ore perché voleva dare a tutti la possibilità di salutarlo. Sulla lapide fece scrivere “vi ho voluto bene, pensatemi”. E fu portato — accanto ai genitori di Gigi D’Alessio, nella loro cappella di famiglia — al cimitero di Poggioreale in corteo. Il feretro fu seguito a piedi per quattro chilometri».
Femmine pigliate a schiaffi in scena, il malamente accoltellato… C’è futuro per la sceneggiata?
«C’è. Io adesso esco con un singolo dove duetto con papà nella versione remix di Dolce Vita. Ci sono moltissimi giovani che si stanno avvicinando al suo repertorio. Insieme con me lavorano tanti ragazzi, come Tommaso Cafora, che ha 30 anni, e mia moglie Marianna Mercurio che ne ha 40, tredici meno di me. Lei ha lavorato con Sorrentino in Parthenope, fatto moltissima tv e cinema, ma alla sceneggiata non rinuncia».
Ma non ritiene sia una sorta di musical di impianto patriarcale?
«Pure in Shakespeare Otello uccide Desdemona. La sceneggiata è parte della nostra storia popolare e nasce in anni lontani da Libero Bovio, di cui mio padre interpretò magistralmente il repertorio. Sono storie e situazioni che vanno certamente filtrate con la sensibilità di oggi, ma senza censura. Il problema della violenza sulle donne c’è, ma va cercato e risolto altrove».
Suo padre quanti film ha fatto in carriera?
«Ventuno, ma la sua forza era il palcoscenico. Si esibì alla Casa Bianca, oltre che a Little Italy e in ogni angolo degli Stati Uniti, in Australia. Raggiunse i napoletani ovunque nel mondo: a tutti restituì un pezzo della loro memoria».
Poi si lasciò coinvolgere in un progetto di Allen Ginsberg dove si mise in posa in stile Querelle de Brest di Fassbinder e come Marlon Brando in Ultimo tango a Parigi.
«E questo deve far capire la sua forza interpretativa. Scatti bellissimi che a qualcuno hanno fatto dire che probabilmente è stato sottostimato il suo talento e il suo potenziale. Fu fatto il suo nome anche per interpretare Il sindaco del Rione Sanità di Eduardo».
Sogna mai suo padre?
«Una sola volta, non parlava ma mi toccava».
Le manca?
«Tutti i giorni. Spesso mi chiudo in bagno a piangere e rivedo di continuo i suoi film. O guardo il documentario che ha realizzato la Rai su di lui. Si chiama “Il Re”. E lui è stato davvero il Re, di Napoli e del suo popolo».
13 settembre 2025
© RIPRODUZIONE RISERVATA