Il Centro Studi Mediobanca ha pubblicato un rapporto sui 34 principali operatori con fatturato sopra i 100 milioni. Il settore privato è in piena espansione, trainato dalle liste d’attesa del Ssn. Mentre i contratti e il costo del lavoro rimangono bloccati. L’accesso alle cure diventa sempre più legato alla capacità di spesa
Nel 2023 i grandi gruppi della sanità privata hanno registrato ricavi per 12 miliardi di euro, in aumento del 5,7 per cento rispetto al 2022 e del 15,5 per cento rispetto al 2019. Le stime per il 2024 indicano un’ulteriore crescita del 4,8 per cento. È la fotografia del Centro Studi Mediobanca sui 34 principali operatori con fatturato sopra i 100 milioni: un settore in piena espansione, trainato dalle liste d’attesa del Servizio sanitario nazionale e da un ricorso crescente al privato accreditato. Ma mentre i bilanci corrono, i contratti restano fermi: oltre 250mila addetti attendono da anni un rinnovo che non arriva.
Il mercato è dominato da pochi grandi gruppi. In cima c’è la holding Papiniano, che controlla il Gruppo San Donato e l’Ospedale San Raffaele di Milano, con 1,83 miliardi di ricavi nel 2023. Seguono Humanitas (1,19 miliardi), Policlinico Gemelli (917 milioni), GVM – Gruppo Villa Maria (897 milioni) e Kos (752 milioni). Altri attori rilevanti sono Garofalo Health Care, ICS Maugeri, IEO, Auxologico, Policlinico di Monza, insieme ai colossi della diagnostica Synlab e Affidea. Nel Lazio e al Sud il gruppo Angelucci, ora deputato di Forza Italia e proprietario di cliniche e testate giornalistiche, è tra i principali beneficiari dell’accreditamento con il Ssn.
Pilastro del sistema
La dinamica è chiara: il privato accreditato non è più un canale accessorio ma un pilastro del sistema. Un ricovero su quattro avviene in strutture private convenzionate, che coprono circa il 35 per cento dei ricoveri chirurgici. È un fenomeno alimentato dai tempi di attesa: i nuovi dati nazionali mostrano ampi sforamenti dei tempi massimi per molte prestazioni, con rispetto degli standard solo in circa metà dei casi, con punte oltre i sei mesi per esami diagnostici complessi.
La spesa sanitaria privata complessiva è stata stimata tra 43 e 46 miliardi nel 2023. L’88,6 per cento è pagato direttamente dai cittadini, solo l’11,4 per cento è intermediato da fondi o assicurazioni. Secondo l’Osservatorio Gimbe e i dati Istat-Sha, la spesa pro capite italiana è sopra la media europea: 1.206 dollari contro i 1.169 dell’Ue. A pagare di più sono le famiglie che rinunciano al Ssn: nel 2024 quasi 4 milioni di persone hanno rimandato o evitato prestazioni sanitarie, costrette a rivolgersi al privato o a rinunciare del tutto. Questo spostamento progressivo segna una frattura con il principio universalistico del servizio pubblico: l’accesso alle cure diventa sempre più legato alla capacità di spesa.
I contratti
Sul fronte del lavoro la fotografia invece è opposta. I contratti collettivi nazionali sono bloccati: quello della sanità privata, firmato da Aiop (Associazione Italiana Ospedalità Privata) e Aris (Associazione Religiosa Istituti Socio-sanitari), è scaduto da più di sette anni; quello delle Rsa addirittura da oltre tredici. Parliamo di 250 mila lavoratori, tra infermieri, operatori socio-sanitari, tecnici e amministrativi, che garantiscono servizi essenziali con salari fermi al 2016 o al 2010.
Aiop e Aris, che rappresentano le strutture private convenzionate con il Ssn e quindi finanziate in gran parte da risorse pubbliche, subordinano l’apertura delle trattative alla copertura integrale dei costi da parte di stato e regioni. Una condizione che i sindacati giudicano inaccettabile, denunciando «un dumping contrattuale che scarica sui dipendenti i margini di profitto». Le richieste sono precise: vincolare le regole di accreditamento al rispetto dei Ccnl, obbligare le strutture convenzionate a rinnovare i contratti alla scadenza, fermare l’uso dei cosiddetti contratti pirata.
Intanto il modello che si consolida è quello di un sistema a due velocità: da un lato, i ricavi crescono grazie a fondi pubblici e spesa privata indotta; dall’altro, il costo del lavoro resta congelato. In sintesi, come sottolineano i sindacati, si «socializzano i ricavi» con risorse dello Stato e delle famiglie, e si «privatizzano i costi» comprimendo diritti e salari.
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