Artista britannico-americano nato a Londra nel 1968 e cresciuto a New York, Philip Toledano lavora da più di vent’anni sull’immaginario sociale contemporaneo, oscillando tra fotografia concettuale, installazioni e, più di recente, intelligenza artificiale. I suoi libri – da A New Kind of Beauty a Maybe fino ad Another America e The United States of Conspiracies – raccontano desideri, paure e ossessioni collettive. Sempre in bilico tra documentario e finzione, i suoi progetti non cercano mai la verità letterale, ma smascherano le fragilità che si nascondono dietro le costruzioni sociali e mediatiche.

In Another America, in mostra a Milano fino al 2 ottobre alla Fabbrica Eos grazie a Tallulah Studio Art e a cura di Patrizia Madau e Rebecca Delmenico, Toledano ha immaginato un passato alternativo per gli Stati Uniti, un universo distopico che oggi sembra meno remoto di quanto apparisse dieci anni fa, quando ha iniziato a pensare al progetto. «Siamo stati abituati a pensare che la storia avanzasse lentamente – racconta –, ma ci siamo dimenticati che può anche travolgerci come uno tsunami».

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Riguardando quel lavoro oggi, l’artista oscilla tra ironia e inquietudine: «Mia moglie dice che la mia unica dote è riuscire a intuire ciò che sta per arrivare. Quando ho iniziato a lavorare sui complotti mi sembrava chiaro che l’America stesse entrando in una tempesta. Non pensavo certo di fare profezie, ma a volte l’arte, senza volerlo, anticipa il reale».

In The United States of Conspiracies la sua attenzione si sposta sulla fascinazione per il complotto, che Toledano considera radicata nel dna americano. «Il Paese è nato da una diffidenza verso il governo e si è fatto sempre più individualista – racconta – in una nazione di individui, nessuno ti dice cosa credere, inventi la tua storia e i tuoi fatti. Non sono sicuro che l’America abbia mai davvero valorizzato la ragione. Sono propenso a pensare che si trattasse solo di un’anomalia. Oggi la politica americana funziona esattamente come una cospirazione».

Questa attrazione per il baratro, aggiunge, ha anche una dimensione spettacolare, considerata quasi come una nuova forma di intrattenimento: «Forse il collasso è un nuovo reality show a scala epica: America – The Collapse!». E se dovesse condensare la crisi politica e culturale in un’unica immagine, Toledano non ha dubbi: «Donald Trump è la risposta più semplice».

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La polarizzazione, sottolinea, è un fenomeno recente: «Un tempo esisteva un set minimo di regole condivise entro cui si poteva litigare. Oggi è cambiato. È di moda accusare i social media, e in effetti sono la lente che concentra la luce del sole fino a bruciare». Le teorie del complotto, aggiunge, non sono soltanto un sintomo di sfiducia democratica, ma funzionano come una religione secolare: «Ti danno fratelli di fede e un senso in un mondo sempre più caotico».

Il suo lavoro muove continuamente tra documentario e finzione. «Non cerco di destabilizzare – precisa il fotografo – mostro quello che vedo accadere nel mondo. Il risultato, certo, può confondere. Ma a volte è meglio una mano di velluto che un pugno di ferro». L’arte per lui non ha la forza di cambiare il mondo: «Può, semmai, mostrarne le contraddizioni, renderne visibili le crepe. Forse un meme ben fatto ha più potere politico di un’opera d’arte. Chi muove davvero le cose oggi sono figure ibride, nate dentro la cultura digitale».

Il riferimento al passato della fotografia è inevitabile. Toledano lo mette a confronto con il presente: «Per Robert Capa e i fotoreporter degli anni 40’ e 50’, la fotografia era una prova indiscutibile. Oggi non più. Quando tre anni fa ho iniziato a lavorare con l’AI, partivo dall’idea che ormai “tutto è vero e niente è vero”. Al tempo in pochi riflettevano sulle conseguenze, oggi ogni post su Instagram viene accolto con il commento “è AI” o “non è AI”. L’epoca dell’immagine come verità è morta, il mio lavoro non fa che segnalarlo».

Per Toledano, l’intelligenza artificiale non è una minaccia: «Senza un input umano non è nulla, è come una macchina fotografica abbandonata su uno scaffale. Ma proprio perché dipende dalla nostra immaginazione e dalle nostre capacità, mi spinge a osare di più». È convinto che la sfida non sia temere lo strumento, ma imparare nuove forme di fiducia e di comunicazione. «Abbiamo creduto alla fotografia come testimonianza solo dal 1920. Prima di allora come facevamo a distinguere il vero? Si tornava al racconto orale, all’autorità della voce. Oggi siamo tornati a quel punto: dobbiamo inventare altri codici».

E mentre l’AI rischia di diventare il motore perfetto di disinformazione, Toledano ne coglie anche la valenza paradossale: «Potrebbe sostituire persino il teorico della cospirazione, l’inventore di narrazioni seducenti. Fortunatamente, non succederà finché non sarà davvero senziente. Ma quel giorno, sarà la fine». È uno scenario che riporta al cuore stesso della sua pratica: la capacità delle immagini di affascinare, persuadere, manipolare, con un dubbio finale: «Quando penso al futuro degli Stati Uniti, vedo due possibilità equivalenti: un Paese sull’orlo della reinvenzione, oppure uno che prova all’infinito la messinscena del proprio funerale. Lo scopriremo tra qualche anno».