Poi c’è la trappola più instagrammabile: le «storie di superamento». Foto in controluce, caption motivazionale, applausi. «Sui social una buona vita viene confusa con una vita visibilmente di successo», dice Grue. I Paralimpici diventano l’unico decalogo possibile: disciplina, performance, «ce l’ho fatta». Gran spettacolo, ma occhio: «È una narrazione pericolosa. Anche nel mondo aziendale si sente dire che le persone disabili sono risorse “non sfruttate”, che lavorano di più, che conviene assumerle. È abilismo travestito da opportunità: riduce il valore umano al contributo economico». Quando il corpo vale solo se produce, la politica ha già perso.

Il suo memoir non promette normalità come premio fedeltà. Semmai ne smonta il feticcio. Sì,
famiglia e lavoro gli servono come cornice, ma non come gabbia. «Flaubert parlava della
normalità borghese come precondizione della libertà artistica. Per me è stato così»,
ammette. Ma Berkeley — la comunità dove ha vissuto un anno — gli ha mostrato «molte
forme di libertà possibili». Il punto, insomma, non è entrare nello stampo: è ridiscutere lo
stampo.

E già che siamo ai cliché, Grue sgancia un’altra bomba gentile: smettiamola di chiamare le
assistenti personali «gambe e braccia». Non sono protesi umane. «Autodeterminazione non
è solo controllo sul proprio corpo, è anche relazione non gerarchica con chi ti supporta».

In tempi di culto dell’«autonomia» come prestazione individuale, ricordarsi che la libertà è una
rete (e non un assolo) è più rivoluzionario di mille hashtag. Dove andiamo da qui? Nel suo prossimo libro, nato dall’anno trascorso in California, Grue incrocerà le radici dure d’America — «espulsione dei nativi, eugenetica, sterilizzazioni forzate» — con l’utopia lucidata di Silicon Valley, che progetta «un’umanità ossessionata da intelligenza, produttività, potenza». Un transumanesimo da brochure che seduce anche i populismi. Mentre fuori dalle vetrate, diritti conquistati a fatica possono evaporare a colpi di decreto. E noi? Noi dovremmo smetterla di chiedere alla disabilità un lieto fine motivazionale e iniziare a farle la domanda scomoda: che cosa rivela, oggi, dei nostri modelli di libertà? La risposta di Grue è un invito a disinnescare lo sguardo. «La storia che manca è semplice e radicale: la disabilità è parte della variazione umana. Le divisioni non sono naturali: le creano società, economia, politica, cultura. Le persone disabili sono, semplicemente, persone». Semplice non vuol dire facile. Vuol dire cambiare cornice: dal mito della
performance alla politica dei corpi. Ora, resta un’idea che non fa like ma fa futuro: se la mia
vita è come la vostra, allora la libertà o è per tutti i corpi — oppure non lo è per nessuno.