Ecco Ocean Vuong, con quel nome importante che gli fu cambiato da sua madre, quando seppe che l’Oceano era la vastità d’acqua che connetteva l’America e il Vietnam da cui erano immigrati (e nel suo negozio di manicure una cliente le suggerì di usarlo). Come se lei avesse saputo che al figlio un giorno sarebbe servito un nome d’arte, da poeta più cool in circolazione, anzi in tour quasi tutto sold out. Esattamente come oggi a Milano, quando lo incontriamo per il nuovo libro. Dopo i pluripremiati sonetti scandalosi e ipermoderni di Il tempo è una madre, è la volta di un romanzo, L’imperatore della gioia, pubblicato da Guanda. «Tremendamente bello veder tradotte le tue parole in 41 lingue, ma nell’italiano di Primo Levi, Natalia Ginzburg, Emilia Rosselli, Dante, Pasolini. Oh my gosh! E Milano è l’unico posto dove era stata mia madre», dice con un volto di assoluta dolcezza, maglietta anni 80 dei Kino e ciabatte che può portare solo lui.

La gioia del titolo è ironica visto che Gladness, la città del libro, è uno di quei posti “buco di culo” come scrive lei?

«Sì, è una specie di gioco di parole, Gladness è una di quelle città della provincia Usa con nomi strani, biblici o drammatici, Redemption, Vengeance, Indipendence, Devil’s Pit o Church Fall, non finiscono più… Anche se dopo il primo capitolo scopri che Gladness non esiste più. È stata ribattezzata Millsap in onore di un ragazzo tornato dalla Prima guerra mondiale senza mani e braccia. Quindi l’imperatore della gioia è l’imperatore del nulla. Un fantasma. E continuando a leggere essere imperatori non significa governare, ma dare il nome a una razza di suini, i maiali imperatore. E questo è molto vero in America, dove spesso il nome è un inganno».

Chi sono gli imperatori oggi?

«Be’, lo vediamo, i tecnocrati alla Elon Musk. Mentre i Trump stanno riportando in auge l’idea della dinastia. Quindi l’idea dell’impero è molto, molto presente e moderna. Non è un’astrazione. Ma una realtà che è sempre più sorprendente per me».

Questo romanzo che risposte dà all’attualità politica?

«Oggi non c’è bisogno di seguire la politica. Ti entra in casa. Ti invade la psiche. E penso che ogni libro sia un prodotto del suo tempo. Pensi a I Miserabili di Victor Hugo che viene fuori dalla Francia post-rivoluzione. All’Auschwitz di Primo Levi uscito dalla Seconda guerra mondiale. Io però non ho un messaggio da dare, perché se senti e pensi di saperne più del lettore la creatività muore».

Il libro comincia con “la cosa più difficile è vivere una volta sola”, che è una critica alla generazione YOLO, You Only Live Once…

«Sì, è vero! YOLO oggi significa buttalo via. Bevi lo champagne e rompi la bottiglia vuota, ma può significare altro. Io sono buddista. C’è una metafora che ripetono nei sermoni i monaci quando vado ad ascoltarli – una volta al mese – ed è che il tuo corpo, la tua vita è come una camera d’albergo. Un giorno la lascerai, ma prima di fare il check out vedi di lasciarla in ordine, senza sporcizia in giro, perché qualcun altro dovrà ripulirla. Solo perché te ne vai tu non significa che la camera d’albergo sia sparita. Qualcun altro la occuperà. Significa che non devi vivere solo per te stesso. E non ha a che fare con la moralità, ma con la sofferenza che mi ha dato vedere amici buttare via i loro 20 anni. Gran parte della vita qui è basata sull’afferrare, afferrare, afferrare. Senza pensare al prossimo cliente d’albergo o addetto alle pulizie. E per scrivere di vita dovevo scrivere un romanzo sul lavoro».

Infatti è pieno di fast food, disumani ma superumani…

«Mia madre era in un salone di manicure. Io ho lavorato in più di un fast food. E poi anche illegalmente in una piantagione di tabacco, perché sei pagato molto di più che nei fast food dove è applicato il salario minimo governativo, che era 7,15, ma in piantagione – in nero – era 9,50, senza tasse visto che lo Stato non lo sa. Nei fast food, ho lavorato al Boston Market e poi da Panera Bread. Quello che ho capito in quegli ambienti è che nessuno vuole restarci a lungo, a differenza che in un ospedale dove lavori per fare il medico. Tutti hanno un altro sogno. Mi ha insegnato molto su cosa succede alle persone che lavorano senza un sogno o facendo duramente qualcosa che non li fa muovere verso quel sogno. La vita Usa si fonda sul lavoro degli immigrati, italiani… O rubato agli africani portati lì».

Come mai non vive più a NY da scrittore di successo?

«Vivo in una città di 30.000 persone nel Massachusetts circondato da agricoltori. A NY sono stato 11 anni, nelle grandi città smetti di guardare il resto del mondo. Tutti i miei amici lì dicevano “figurati se rieleggono Trump”. Ma io lo sapevo che sarebbe successo, perché vengo dalla campagna, sono più vicino al polso del Paese».

A proposito di Yolo, rapporto con tempo e tecnologie?

«Eravamo strapoveri e non ho avuto un computer fino ai 22 anni anziché a 12 come i miei coetanei. A volte preferisco ancora scrivere a mano perché ci vogliono 15-20 secondi in più e ho più tempo per riflettere».

Paura di Chat GPT?

«Può rifare l’estetica, lo stile, ma non c’è il momento storico in cui è stato scritto l’originale, tipo il fascismo, le bombe nucleari, la brutalità dell’umanità o del presente. Ma con un amico ci chiedevamo: “ma tu ci andresti alla presentazione di un libro di ChatGPT?”. Gli ho detto, se Chat GPT scrivesse un romanzo e andasse in tournée, sarei il fan più grande. E quanto sarebbe dolce farsi firmare la copia da ChatGPT?».

A proposito di parole, quella che usa di più?

«Credo di amare follemente darkness, ma è perché quando pensi all’oscurità, la prossima cosa a cui pensi è la luce, almeno per me. Non sono tragico, anche se si aspettano sempre che dica cose drammatiche. Mia madre alla mia prima copertina mi disse: “hanno scelto la più triste”. Ma io rido tantissimo».

Non c’è finale da spoilerare, lei detesta i finali a effetto…

«Ci sono la catarsi di Aristotele e il sonetto di Petrarca, la tragedia e la commedia. La tensione è il motivo per cui ci sono il Colosseo e il Super Bowl, ma a questi spettacoli ho voluto resistere, e mi sono rivolto al sonetto e al romanzo perché non offre via d’uscita, è come il fast food. Il turno di lavoro è un verso che si ripete».