ROMA – Carenza di personale e stanchezza degli operatori sanitari, lunghe attese e sovraffollamento di pazienti, ma anche organizzazione inefficiente e accessi impropri: la rete dell’emergenza-urgenza, che dovrebbe essere al centro di un servizio sanitario nazionale, è da anni sotto pressione. E’ l’incipit dell’articolo di Rebecca De Fiore su Careonline, de Il Pensiero Scientifico Editore.

Dagli accessi impropri alle difficoltà di dimissione. Abbiamo raccolto la testimonianza di Daniele Coen, autore di “Corsia d’emergenza. La mia vita di medico in Pronto Soccorso” (Chiarelettere, pp. 208), e medico che ha lavorato per oltre quarant’anni in pronto soccorso, dirigendo per quindici quello dell’Ospedale Niguarda di Milano. “La maggior parte degli interventi che le Regioni provano a mettere in atto per contrastare il sovraffollamento dei pronto soccorso si concentra proprio sulla riduzione degli accessi. Forse perché è più facile prendersela con i cittadini che accorrono senza ragione in pronto soccorso, piuttosto che con sé stessi per non aver adeguato le strutture di ricovero e di riabilitazione”, scrive Daniele Coen nel libro. E aggiunge: “Il vero problema alla base dell’affollamento dei pronto soccorso è il blocco in uscita dei pazienti più gravi e complessi”.

Quegli anziani che non puoi dimettere perché soli. Se da un lato infatti il fascino del pronto soccorso è proprio quello di avere sempre la porta aperta, dall’altro è uno dei motivi per cui negli anni si è trovato schiacciato tra la crisi del territorio e quella degli ospedali. “La medicina territoriale ha oggi gravi problemi nell’impostazione”, sottolinea Coen. “La figura del medico di medicina generale solo nel suo ambulatorio, tendenzialmente isolato, non risponde più alle esigenze dei cittadini. Ma il territorio ha un altro aspetto di cui si parla poco: la dimissione dall’ospedale. Oggi si calcola che il 25-30% dei letti di area medica sia occupato da grandi anziani, che potrebbero non dover rimanere in ospedale ma non si riescono a dimettere perché soli a casa non sono in grado di stare. Tutto quello che il territorio avrebbe dovuto costruire, le strutture intermedie, di riabilitazione, non ci sono in quantità adeguata e quelle che ci sono non sono facilmente accessibili. Dunque il territorio condiziona molto il nostro lavoro”.

Più personale, più posti letto. Questi interventi fondamentali, però, vanno accompagnati da investimenti pubblici significativi per aumentare i posti letto e il personale negli ospedali. Tra i problemi più urgenti dei pronto soccorso, infatti, c’è la mancanza di personale: attualmente si stima che a livello nazionale manchino circa 3.500 medici e 10.000 infermieri. “Se manca personale non si riesce a mantenere la qualità del servizio”, continua Coen.

Più facile gestire un infarto acuto che una anziana diabetica. “E non è un lavoro che si improvvisa – si legge ancora nel libro di Coen – è importante che si comprenda quanta complessità organizzativa c’è dietro alla gestione delle emergenze, ma anche alle singole decisioni da prendere su ricoveri e dimissioni. È molto più facile paradossalmente gestire l’infarto acuto, che segue un protocollo, piuttosto che gestire una paziente anziana con diabete, insufficienza renale cronica, che ha avuto un ictus in passato e che si presenta in pronto soccorso perché le gira la testa. Si lavora in un contesto in cui non segui mai un malato alla volta, ma ne segui dieci, quindici, venti, saltando da uno all’altro e dovendo continuamente attribuire la priorità”.

I tanti pazienti da seguire contemporaneamente. E seguire così tanti pazienti contemporaneamente diventa un problema per i professionisti e per i pazienti stessi. Si legge nel libro: “Negli ultimi anni di lavoro ho capito che, quando avevo più di sette o otto pazienti da seguire contemporaneamente, ero io stesso a diventare un potenziale rischio per la loro salute”.

I medici “a gettone”. Per sopperire alla mancanza di medici sta aumentando sempre di più il ricorso ai medici a gettone, medici che lavorano nelle strutture pubbliche a chiamata, pagati a ore, attraverso cooperative o aziende. Questa pratica, però, presenta non poche criticità. Innanzitutto, la loro preparazione e formazione: “Si possono avere ottime conoscenze teoriche, ma non essere preparati per affrontare l’emergenza in pronto soccorso. In un contesto come questo servono competenze specifiche”, conferma Coen.

Manca la continuità con i pazienti. Altri problemi riguardano la mancanza di continuità con i pazienti e il loro percorso di cura, la conoscenza e il rispetto dei protocolli dell’ospedale in cui si lavora solo per qualche ora, il costo per il Sistema sanitario nazionale considerando che le paghe dei medici a gettone sono molto più alte di quelle degli strutturati. Così come manca il personale mancano i posti letto, con il boarding che ne è una diretta conseguenza.

Dal 2.000 tagliati 80mila posti letto in pronto soccorso. Si stima che dall’inizio degli anni duemila siano stati tagliati in pronto soccorso circa 80.000 posti letto, portando l’Italia a una media di 3,18 letti per 1.000 abitanti rispetto a Paesi come la Francia (6) e la Germania (7,8) e a una media europea superiore a 5. Il pronto soccorso diventa quindi un imbuto, con pazienti che non si riescono a ricoverare e sono costretti a sostare nei corridoi per giorni.

Chi resta subisce turni massacranti. Per tutti questi motivi, i professionisti che restano lavorano su turni massacranti, con grandi responsabilità, in cambio di bassi compensi. E molti scelgono di abbandonare. Tra loro Michela Chiarlo, medico di Torino che l’anno passato ha deciso di abbandonare il pronto soccorso, raccontando la sua scelta con una lettera a la Repubblica poi ripresa da il Punto. “Sono un medico del pronto soccorso dell’ospedale San Giovanni Bosco, o meglio lo ero fino a fine agosto quando, dopo sei anni, una pandemia e un figlio, ho abbandonato. La medicina d’urgenza è un lavoro bellissimo, l’ho amato da subito e lo amo ancora, ma non sono più disposta a farlo a queste condizioni. E non sono di certo la sola: in questi sei anni almeno dieci colleghi hanno lasciato il pronto soccorso per le ragioni più varie”. Nella lettera parla di usura fisica e di usura emotiva, di mancanza di fondi e di tempo per sé.

Il lavoro più bello del mondo? Secondo dati della Società italiana medicina di emergenza urgenza (Simeu), solo il 62% del fabbisogno di medici è coperto da specialisti del Ssn. Il restante 38% è affidato a cooperative, libero-professionisti e specializzandi. I dati emergono da un’indagine – condotta su 153 strutture sparse in tutta Italia, corrispondenti a oltre sette milioni di accessi nel 2024 – che mette in evidenza un altro aspetto critico: la presenza sempre più massiccia di specializzandi in corsia, nonostante la scuola di specializzazione sia sempre meno scelta. Infatti secondo i dati diffusi dall’Anaao-Assomed, sindacato dei medici ospedalieri, e dall’Associazione liberi specializzandi, nel 2024 è stato coperto solo il 29,8% dei posti disponibili per la specializzazione in Medicina d’emergenza urgenza. C’è chi, però, fortunatamente, ancora la ritiene la specialità più bella del mondo.

Medicina d’urgenza: competenze internistiche e di terapia intensiva. Abbiamo parlato con Flavia Nasella, specializzanda in Medicina d’emergenza urgenza al Policlinico Gemelli di Roma, la quale ha citato Joe Lex, medico d’urgenza statunitense, descrivendo l’emergenza come “i 15 minuti più divertenti di ogni disciplina”. Il medico di pronto soccorso, ha spiegato, è una figura trasversale che combina competenze internistiche e di terapia intensiva, e deve essere in grado di destreggiarsi tra le esigenze cliniche e quelle umane dei pazienti.

Una delle ultime figure trasversali della medicina. “In una medicina sempre più settoriale e iperspecializzata – ha raccontato Nasella – uno dei motivi per scegliere questa specialità è il fascino di rimanere una delle ultime figure trasversali della medicina. C’è poi il lato umano: in quei 15 minuti bisogna al tempo stesso essere capaci di dare una risposta clinica e una risposta relazionale a chiunque ci si pari davanti, è un microcosmo di umanità in cui l’umanità ci si presenta nel momento della fragilità”. Anche il ruolo di un dirigente, di una persona di riferimento può essere importante. “Bisogna far sentire le persone che sono con te autorizzate a comportarsi non soltanto secondo i criteri della medicina scientifica, ma anche secondo criteri del buon senso e della solidarietà umana”, ha sottolineato Fabio De Iaco, direttore del Pronto soccorso dell’Ao Martini di Torino.

Ma è urgente cambiare le cose. Sicuramente, però, per fare in modo che rimanga il lavoro più bello del mondo, bisogna cambiare le cose. La Simeu ha provato a dare indicazioni su come affrontare il futuro della medicina d’emergenza-urgenza nel contesto del Servizio sanitario nazionale. Stessa cosa ha fatto Daniele Coen nel capitolo conclusivo del libro: “Il problema è complesso e come tutti i problemi complessi non ha soluzioni semplici. (…) Ma di una cosa sono certo: per salvare l’ultimo baluardo della medicina pubblica c’è bisogno di una vera rivoluzione. Bisogna abbattere ostacoli e interessi consolidati, immaginare un’organizzazione radicalmente diversa, motivare fortemente le nuove generazioni di medici. Si avverte un estremo bisogno di collaborazione, di elasticità, di fantasia e di sperimentazione”.

L’uso dell’intelligenza artificiale. D’altra parte, si stanno diffondendo esperienze virtuose nei pronto soccorso in Italia, per esempio l’uso dell’intelligenza artificiale per diminuire l’affollamento, piccole biblioteche, restyling degli ambienti e figure ad hoc per facilitare la comunicazione con il personale medico; ma De Iaco, grazie alla sua lunga esperienza, ribadisce qual è a suo parere il vero problema di fondo alla questione dei reparti di emergenza-urgenza.

Rendere più accoglienti luoghi freddi e decadenti. “I miglioramenti sono reali e le esperienze spot sono tante ma, nonostante il restyling per rendere più accoglienti luoghi freddi e spesso decadenti sia un tentativo che viene fatto in modo trasversale, è un punto di vista superficiale del problema. Un restyling sarebbe importante a tutti i livelli, poiché la percezione di un luogo caotico e di difficile vissuto aumenta la sensazione di disagio e precarietà, sia nei pazienti che negli operatori sanitari”.

L’efficacia, l’efficienza, la rapidità e la completezza. “Nonostante questi miglioramenti al livello dell’organizzazione, il vero problema riguarda l’efficacia, l’efficienza, la rapidità e la completezza nelle risposte, questioni chiave che si riflettono nella percezione reale dei pazienti. La percezione del pronto soccorso pubblico è lo specchio della percezione del Servizio sanitario nazionale. Parlare di pronto soccorso significa parlare proprio di questo”, ha confermato De Iaco, “non dobbiamo quindi perdere il valore costruito anni fa, una reale ricchezza per chiunque in questo Paese”.

* Rebecca De Fiore – redattrice di CARE, giornale online de “il Pensiero Scientifico”