«Volevo raccontare la parabola discendente di una famiglia torinese altoborghese attraverso l’evento di Mani Pulite, guardare un momento della storia politica italiana che è stato fondamentale e rispetto al quale le narrazioni sono ancora poche e parziali». Laura Marzi, nata ad Aosta e cresciuta tra Torino, Roma e Parigi, ha scritto Stelle cadenti (Mondadori), romanzo lucido, intimo, armonico tra fiction e cronaca. L’arresto di Arturo Montella, all’epoca segretario della Dc, sgretola certezze dentro e fuori casa. Tangentopoli è un fil rouge, storia e al tempo stesso metafora di disillusione e climax discendente.

Perché si parla, e si scrive, così poco di quel periodo?

«C’è un’esigenza eroicizzante, ad esempio nella serie “1992”: il punto di vista è quello del pool di magistrati, la loro diventa un’operazione coraggio, ammantata di epica e purezza».

Nelle sue Stelle cadenti invece la voce narrante è quella di Ludovica, una diciassettenne che seguiamo fino in età adulta: punto di vista non casuale?

«Lei è rimasta travolta dall’evento senza esserne protagonista. Ci sono stati colpevoli e innocenti e la figlia di un colpevole è colpevole e innocente. Il mio è un romanzo familiare dove un evento del tutto imprevisto – in questo caso l’arresto, ma poteva essere un fallimento, un tracollo finanziario, un lutto, una tossicodipendenza – modifica la traiettoria in modo ineluttabile».

Tutti sembrano in qualche modo ricomporsi trovando un nuovo senso: lei no…

«Lei, come il fratello Edoardo, rappresenta i ragazzi di quella generazione, “stelle cadenti”, figli del secondo dopoguerra, cresciuti pensando che se si fossero impegnati, la loro vita sarebbe stata un crescendo. Non sapevano cos’era il precariato. E per questo la disillusione di Ludovica ha tutto un altro sapore rispetto a quella dei genitori, è uno smarrimento non solo personale ma anche generazionale. Nel 1993 in Occidente si affermano il capitalismo e il neoliberalismo. I diciottenni sono stati i primi a viverne le conseguenze nel corso di tutta la loro esistenza».

Oggi cosa può innescare il disincanto?

«Bisognerebbe invertire la rotta, raccontare non distopie o disillusioni, ma storie che aiutino a immaginare un mondo migliore. I ragazzi adesso sanno che il loro futuro non è roseo, tra crisi climatica, esaurimento di risorse, scenario geopolitico terribile. Più che aspirazioni, hanno una necessità: sopravvivere».

Cosa ci dice il romanzo circa il femminismo e i rapporti di Ludovica con il maschile?

«Lei viveva nell’epoca delle certezze sentimentali, in cui le ragazze credevano possibile che il primo amore diventasse marito, padre, compagno per la vita. Invece, anche in questo caso, un imprevisto, comune a milioni di altre donne, rompe l’incantesimo. E lei fatica ad accettare il cambiamento».

Dove sta le responsabilità rispetto al proprio destino?

«Conta tantissimo. Siamo liberi di interpretare, quindi di reagire agli eventi, a nostro modo. Ludovica cerca disperatamente di ricostruire il privilegio sociale che aveva dalla nascita in quanto figlia di Arturo Montella. Ci proverà per tutta la vita e allo stesso modo resterà ancorata all’idea e all’esperienza del primo amore».

Cosa c’è di lei in Ludovica?

«Rosa Mantero cita nel suo libro questa frase del critico francese Roland Barthes, in cui mi ritrovo: “Ogni autobiografia è fittizia e ogni fiction è autobiografica”. In comune con il personaggio ho la determinazione un po’ ossessiva e la difficoltà a lasciare andare il passato».

Qual è stato il suo disincanto più grande?

«Essere adolescenti e poi ragazzi in pieno berlusconismo. In Italia non esistevano più i partiti come luogo di dibattito, di costruzione della identità di cittadina e cittadino. E poi il precariato e le emergenze più recenti e stringenti, come la povertà».

Qual è il suo rapporto con la politica?

«Io penso che tutto sia politica, è un fondamento della società civile. In molti Paesi non c’è diritto di voto, il paradosso è che noi invece, che abbiamo tutti i diritti e i doveri, ci permettiamo di tralasciarli».

Questo distacco dalla politica è frutto di quell’epoca?

«Sì, quello è il momento in cui tutto cambia. Mani Pulite ha generato una grande e comprensibilissima disillusione. Con Berlusconi le cose si sono aggravate».

Eppure c’è un tabù sulla Dc…

«È proprio così. All’epoca non c’era l’individualismo dei nostri tempi. Si faceva parte di un partito che fosse la Dc o il Psi o il Pci, comunque l’individuo in qualche modo era secondario rispetto all’appartenenza a una comunità politica. Verso i leader c’era rispetto e riconoscimento di un talento. Ora siamo tutti convinti di essere Einstein».

Perché l’ha ambientato a Torino e non Roma?

«Racconto una lotta tra colpa, vergogna e corruzione, mi piaceva avesse come sfondo una città così rigorosa nella forma. Volevo che la contraddizione umana tra l’essere colpevoli e innocenti avvenisse in un luogo che si ammanta di una certa purezza».

Le stelle cadenti sono anche quelle che ci fanno esprimere desideri: quali per Ludovica?

«Lei ha un grande desiderio d’amore. E di realizzazione».

E il suo, Laura?

«Non lo dico, funziona così con le stelle cadenti».