di
Federico Rampini

Più di Gaza, nel passo indietro nelle relazioni con Israele pesa il raid in Qatar, ma non ci sono state ritorsioni concrete e l’idea di una Nato araba non ha fatto passi avanti

Più di Gaza pesa il Qatar. Nel mondo arabo Israele perde ulteriori consensi e accentua il suo isolamento. La tragedia umanitaria del popolo palestinese però non è così determinante, nelle ultime condanne dei Paesi arabi verso le azioni di Benjamin Netanyahu. 

A provocare un vertice di emergenza tra gli Stati membri della Lega araba e dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica è stato il raid israeliano su Doha, in cui sono morti alcuni esponenti di Hamas residenti in Qatar (ma non i massimi leader politici). È come se quell’attacco a uno Stato sovrano del Golfo abbia violato una «linea rossa», spingendo i Paesi dell’area a superare antiche fratture e diffidenze reciproche. 



















































Dal summit convocato con urgenza nella stessa Doha i qatarini hanno incassato una vasta solidarietà, insieme con dure condanne nei confronti di Netanyahu. È perfino tornata ad affacciarsi un’antica idea: la creazione di una sorta di Nato araba, per organizzare la difesa comune degli Stati membri. 

Un balzo all’indietro verso logiche di schieramento che ricordano le guerre arabo-israeliane del 1967 o del 1973. Se nei tempi recenti un’alleanza militare fra nazioni sunnite sarebbe stata diretta soprattutto alla difesa contro l’Iran, adesso a resuscitare il progetto è il comportamento di Israele da nuovo egemone del Medio Oriente, la percezione che la sua superiorità bellica lo stia trasformando in un pericolo. 

La logica di una Nato araba è anche quella di sostituire l’America, visto che Washington non ha risparmiato dall’attacco israeliano un Paese amico e alleato, il Qatar, dove esiste la più grossa base militare Usa del Golfo. 

In termini geopolitici il danno è serio. Le azioni di Netanyahu, oltre a valergli un evidente isolamento in Europa, portano indietro le lancette del tempo in Medio Oriente: dove negli ultimi anni una svolta storica si era verificata con gli Accordi di Abramo (2020). Il retroterra di quegli Accordi, che rimangono il principale successo di politica estera della prima amministrazione Trump, era stata la nuova strategia dell’Arabia Saudita. 

Il principe Mohammed bin Salman (MbS) aveva imposto a Riad una nuova visione del mondo: Israele non era più un nemico bensì un modello economico e tecnologico da emulare. I sauditi avevano favorito la normalizzazione con Tel Aviv da parte di Bahrain, Emirati, Marocco e Sudan. Era il preludio al colpo grosso, il formale riconoscimento fra il Regno saudita e Israele. La strage perpetrata da Hamas il 7 ottobre 2023 con il sostegno dell’Iran aveva fra i suoi obiettivi di sabotare l’abbraccio fra Israele e il Regno custode dei luoghi sacri dell’Islam. In parte le azioni di Netanyahu hanno attuato le previsioni di Teheran e di Hamas. Da anni non si sentivano da parte di leader sunniti moderato-conservatori delle parole così dure nei confronti di Tel Aviv. Il vertice di Doha però non ha soddisfatto tutte le aspettative dei padroni di casa. La condanna dell’attacco israeliano contro il Qatar non è stata seguita da ritorsioni concrete. 

Non è stata messa all’ordine del giorno la revoca degli Accordi di Abramo. In quanto a Gaza, continuano dal mondo arabo gli appelli alla comunità internazionale perché fermi l’esercito israeliano. Però rimane agli atti la storica presa di posizione da parte della stessa Lega araba, che ha posto come condizione per ogni soluzione alla tragedia palestinese l’uscita di scena di Hamas. In quanto all’idea di una Nato araba, non ha fatto un solo passo concreto in avanti. Pesa il fatto che a riproporla sia stato l’Egitto, Paese in bancarotta, con una leadership screditata, tenuta in vita dai finanziamenti sauditi. Lo stesso Qatar paga una reputazione non proprio immacolata: i suoi immediati vicini lo sottoposero per anni a un embargo e a una guerra diplomatica che rischiò di diventare militare, per castigarlo dei suoi rapporti con l’Iran. 

È vero che la presenza dei leader politici di Hamas a Doha fu voluta da Obama e Netanyahu, per evitare che si trasferissero a Teheran. Ma il trasformismo qatarino ha lasciato in eredità una dose di diffidenza. L’intero mondo arabo è ancora a metà del guado, in una transizione delicata e dagli esiti incerti. Lo sdegno per Gaza è ai massimi, il riavvicinamento con Tel Aviv ha subito dei colpi tremendi. 

Al tempo stesso alcuni regimi sono incerti sul da farsi, di fronte alla smisurata superiorità israeliana nei rapporti di forze militari. Poiché emerge un nuovo egemone regionale, e visto che l’Iran continua ad essere percepito come un pericolo esistenziale, qualcuno può essere tentato di trovare compromessi e un modus vivendi con il numero uno militare dell’area. Manca all’appello la cosa di cui forse c’è più bisogno, una coalizione araba disponibile a «occupare» Gaza per salvarla e ricostruirla.

16 settembre 2025