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llora, l’altro giorno stavo con due amici alla street contro il decreto sicurezza a Roma, no? (carri-murodicasse, 30 gradi, facce rotte, tekno dritta, la A cerchiata sugli striscioni), in corpo un’acquetta leggera di 5-MAPB, giusto il necessario per indurre uno sparlio più avvincente ed empatico, che ha però l’effetto di farmi diventare sonnambula. Nel senso, camminiamo camminiamo e arriva notte – forse montano alla Caffarella; ma ‘sta musica è cringe; siga; forse agli Acquedotti; nah, troppo lontano; che gelo senza felpa; siga; birrino?; il notturno per Termini perso; tipo come Jean Genet; pizzetta?; quando avevo sedici anni; siga; fratello una monetina?; era tutta piena di sangue; siga; oh, ripassa la metro; last birrina? – e mi sento l’NPC di una raver, intrappolata nell’inseguimento videoludico di una sottocultura già esausta nel setting di una Roma ripulita dal giubileo. Come un’intelligenza artificiale che aggrega gesti e parole in termini probabilistici, senza comprenderne davvero l’ontologia. Come Martino, la voce narrante di Il detective sonnambulo (2025), l’ultimo romanzo di Vanni Santoni.
Martino è uno spatriato in Francia, artistoide inconcludente che, nella prima parte del libro, vaga per una Parigi scarica, la poesia degli scapigliati otto-novecenteschi svanita nei gesti ripetitivi di mediocri simulacri della jeunesse bohémien che paiono anche loro più NPC (Non Player Character) di un videogame che la rappresentazione di una nuova scena tardo-decadentista alla Tropico del Cancro o alla Rayuela. Tra questi c’è la – chiamiamola – manic pixie dream girl Johanna, di cui Martino è innamorato e che, ovviamente di natura raminga, dopo qualche tempo, non può far altro che sparire. Le ricerche disperatissime di Martino per la città, in un rigurgito morente del flâneuring epifanico alla Pynchon dell’Incanto del Lotto 49, gli fanno incontrare a un certo punto un cartellone per strada che lo porta a mettersi in contatto con la militante anarchica Tanya.
Insieme decidono di cercare tal Manfredi Contini Della Torre – cryptoguru diventato miliardario in un mix di ingenio e fortuna investendo nella prima wave di bitcoin – che compare nella foto sul cartellone in compagnia di Johanna, e che ha fatto una misteriosa donazione all’organizzazione antispecista di Tanya. Da quel momento il libro si distacca totalmente dall’ideale romantico dell’artiste maudit (che appunto è portato fin da principio come un insieme di gesti grotteschi e morenti) andandosene nella molto meno poetica Davos (capitale finanziaria svizzera) perché ormai l’ideale è marcescente e non ha più nulla da raccontare, al di là forse di una nostalgia masturbatoria che finisce sempre e solo con una fiacca mano sfibrata nel buio. Questo il primo consapevolissimo movimento: il rito funebre del romanzo novecentesco, anche per questo il rimando a I detective selvaggi di Bolaño nel titolo (che guarda caso esce a solo due anni dalla fine del secolo).
Martino è uno spatriato in Francia, artistoide inconcludente che, nella prima parte del libro, vaga per una Parigi scarica, la poesia degli scapigliati otto-novecenteschi svanita nei gesti ripetitivi di mediocri simulacri della jeunesse bohémien.
Quindi, c’è Manfredi, prima solo uno dei tanti nerd impegnati a smerciare carte pokèmon rare online, che d’improvviso si ritrova con un sacco di soldi, ma ha abbastanza cognizione di causa da capire che ci deve fare qualcosa di buono per non farsene completamente avvelenare. Allora ai viaggi in yacht e all’appagamento di innumerevoli sfizi e gadgettistica nerd ci affianca la filantropia, elargendo appunto donazioni massicce a fondazioni tra le più disparate:
Sai quante ne ho finanziate, delle tue “realtà”? Dai consorzi indigeni della Bolivia alle critical mass, sai quelli con le bici?, agli hacker a Bilbao, dagli squat di Lubiana a Extinction Rebellion a Londra… Ho dato soldi pure ai Valdesi, fai tu. Con la Pomegranate Foundation, un’altra struttura che avevo messo su con dei cryptomillionaire che per un po’ mi erano sembrati idealisti veri, ho spinto persino delle comunità spirituali a sfondo psichedelico. Risultati, pochissimi.
Ma la disillusione, come racconta nel libro, si inerpica molto presto in Manfredi, allora chiede aiuto a Johanna (che da manic pixie dream stereotipata si rivela essere il più stratificato personaggio di una promettente e tentacolare artista visiva) per dare vita a un progetto in cui il filantropo nell’ombra può mutare in demiurgo, diventare protagonista della rivoluzione. Ci si sposta a Berlino, dove Manfredi e Johanna stanno ultimando la costruzione dello Schloss: un castello tripartito in residenza artistica, cellula anarcoattivista, e acceleratore di crypto. Un ente benefico che però nella sua architettura chiusa e gerarchica pare assumere delle sfumature settarie in cui Manfredi non riesce a non posizionarsi come guru. Anche Tanya e Martino vengono invitati a prenderne parte: la prima in quanto curatrice dei contatti con gli squatter militanti, il secondo più come una sorta di dama di compagnia di Manfredi stesso, compare di giochi che al posto di un ventaglio sventola carte di Magic. Perché Martino è sonnambulo in quanto privo di una direzione – o ideologia propria – destinato ad assistere e testimoniare le gesta straordinarie degli altri personaggi. Per questo è voce narrante ma anche motore di molte delle imprese dei protagonisti, allo stesso modo in cui siamo spinti a comportarci nei modi più singolari quando siamo ripresi da una videocamera.
Anche il più strutturato progetto dello Schloss, però, lascerà infine Manfredi profondamente insoddisfatto poiché i grandi cambiamenti del mondo non si articolano attraverso quella scienza psicostorica teorizzata da Asimov nel Ciclo delle Fondazioni – la rivoluzione non si può sintetizzare in vitro – ma anche e soprattutto attraverso i nessi acausali della sincronicità junghiana di cui infatti il romanzo è gremito (lo conferma Santoni in un’intervista su Azione.ch). Ma prima di analizzare più a fondo le velleità demiurgiche di Manfredi, e capire che ne sarà di lui e del suo “guruismo”, dobbiamo tornare indietro. A quel passaggio del libro sui primi filantropismi del “cryptobro” e ancora più indietro, al precedente romanzo di Santoni.
Santoni da buon amante degli ipertesti e della cultura fantasy/otaku, negli anni ha costruito un universo narrativo in cui i personaggi dei suoi libri si incrociano, si attorcigliano e riprendono nuova vita.
La Pomegranate Foundation di Manfredi aveva finanziato anche una comunità spirituale a sfondo psichedelico, si diceva prima: Santoni da buon amante degli ipertesti e della cultura fantasy/otaku (consiglio anche la lettura dell’articolo Il pesce che increspa la superficie dell’acqua di Giovanni Padua sull’influenza esercitata dal manga Berserk sul Detective sonnambulo) negli anni ha costruito un universo narrativo in cui i personaggi dei suoi libri si incrociano, si attorcigliano e riprendono nuova vita. Come Cleopatra Mancini che nasce nel saggio narrativo Muro di casse (2015), si sviluppa nel racconto Emma & Cleo e culmina come protagonista del romanzo La verità su tutto (2025). E proprio nella Verità su tutto che la misteriosa Pomegranate Foundation viene citata per la prima volta, in quanto dona quattrocento bitcoin (dodici milioni di euro) alla fondazione spirituale psichedelica Shakti di Cleo (diventata la santona Shakti Devi) e alla sua partner Kumari Devi.
Sebbene il legante tra universi narrativi tra La verità su tutto e Il detective sonnambulo sia più flebile rispetto ad altri libri di Santoni, quello simbolico è invece potentissimo. In entrambi i romanzi i protagonisti diventano guru di organizzazioni chiuse che partono dalla volontà di fare del bene, ma che poi inevitabilmente assumono dei tratti da setta, attorno ai quali si accentra appunto un conglomerato di devoti. La differenza tra Cleo/Shakti Devi e Manfredi è che la prima diventa leader spirituale suo malgrado, dopo aver inseguito per anni la morte dell’ego attraverso la psichedelia e la meditazione, mentre il secondo costruisce consapevolmente lo Schloss e se ne elegge, di fatto, demiurgo e re (nonostante anche lui sia un gran bel psiconauta).
Vanni Santoni è un nomen omen così potente che sottolinearlo sembra pleonastico, come un meme del 2010 rigurgitato su una pagina Facebook per boomer, ma in effetti su di lui nel corso degli anni si è sviluppato un vero e proprio culto. Per questo ora farò quell’operazione che spesso è mero veleno dell’industria dell’arte: ovvero, vestire i panni della detective paparazzo e indagare lo scrittore dietro alla scrittura, comprendere quali sono i punti di collisione fra la vita e la fiction. Non in un’ottica voyeuristica ma olistica – o, se vogliamo, sincronica.
Vanni Santoni: lo scrittore anarchico che per più di vent’anni ha bazzicato nella scena dei free party, il mangia-cartoni che pubblica con Mondadori e alle presentazioni ci va ancora con le Globe, quello che ha scritto il trittico di saggi narrativi sulle sottoculture, uno dei maggiori rappresentanti del rinascimento psichedelico, il toscanaccio che ha reso celebre Mircea Cărtărescu in Italia, quello che presenta scrittrici e scrittori internazionali al Salone del libro ma poi presta la voce per il docufilm Antirave (2024), proiettato negli squat, quello che se sei un esordiente e gli chiedi una mano manda due mail e ci prova ad aiutarti a svoltare. Chiaro? Quello che “letteralmente nostro padre” (meme tanto abusato quanto accurato in real life), dove il noi rappresenta tuttə quellə giovani artistə che si sono formatə a suon di sottoculture, libertarismo e cassa drittissima.
Sia in La verità su tutto sia in Il detective sonnambulo i protagonisti diventano guru di organizzazioni chiuse che partono dalla volontà di fare del bene, ma che poi inevitabilmente assumono dei tratti da setta, attorno ai quali si accentra appunto un conglomerato di devoti.
“Tutti i poeti, persino quelli più avanguardistici, hanno bisogno di un padre” pensa infatti lo stridentista Manuel Maples Arce nei Detective selvaggi di Bolaño, dopo che il giovane Arturo Belano si reca da lui per un’intervista (“le tipiche domande di un giovane entusiasta e ignorante”, pensa Arce mentre le legge). Ma nel libro il poeta, di fatto, da quell’intimità rifugge incaricando la sua cameriera di consegnare le risposte messe per iscritto a Belano senza più mostrarsi a lui: rifiuto di paternità o l’isolamento borghese di un artista arrivato alla gloria? Diamo in questo caso per buona la prima ipotesi: in La verità su tutto, quando la fondazione Shakti ha ormai raggiunto fama internazionale, una folla adorante si raduna nel cortile principale, costringendo Cleo/Shakti Devi a ricoprire la figura della guru:
Quando uscii ci fu un “Oooh!” generale e si avvicinarono. Quando uscì Kumari partì un “Oooh!” anche più forte e qualcuno si buttò in ginocchio.
Non mi piace, ti dico che non mi piace, dissi volta verso di lei.
Ma se sono qui tutti i giorni.
Prima non avevano poster con le nostre facce. E non erano così tanti.
Nell’ingenuità risiede la purezza.
Non raccontare ‘ste cose a me, Kumari, ti prego… ti dico che oggi sono diversi, è come se fosse stata passata una linea…
Dalla folla si staccò un gruppo più piccolo, come uscito da un’oscura fantasia medievale: le donne scarmigliate si lamentavano, gli uomini si battevano la fronte, e al centro, in mezzo a quella angosciosa simmetria di supplicanti, c’era una donna che teneva in braccio una bambina che si sarebbe potuta dire viva solo per i piccoli spasmi che a tratti ne scuotevano il corpo pallido, con le labbra blu come quelle di un’annegata e delle occhiaie che erano le orbite di un teschio.
La tocchi! La tocchi!
Gridavano questo. Dicevano a me.
Pietà, Shakti Devi, la tocchi!
Pietà? Ma…
La tocchi, la tocchi!
… Toccala, su, mi disse Kumari mettendomi la mano sulla spalla mentre quella gente invitava anche lei a toccarla. Non avere paura.
Non ho paura, le dissi nell’orecchio. Solo, a differenza di te, non sento la seduzione di simili scene.
Che vuoi farci. Il mondo sta andando come sta andando. Toccala, su.
Dagli quel che vogliono, Shakti Devi. Se morirà, vorrà dire che doveva andare così.
Non ho paura che muoia, Kumari, ho paura che guarisca.
Il Manuel Maples Arce di Bolaňo, similmente a Cleo/Shakti Devi, non vuole toccare il giovane poeta; inversa la vitalità esuberante di Arturo Belano rispetto a quella della bimba malata della Verità su tutto, ma entrambi bisognosi di una madre o di un padre spirituale che gli donino guarigione o saggezza; Shakti e Arce alla chiamata si sottraggono per paura. “Ho paura che guarisca”, ho paura di scoprire il mio potere di demiurgo sul mondo, di creare qualcosa che sfugga al mio controllo e prenda strade impervie, come nel mito del Golem, e allo stesso tempo che la mia forza divina trasformi imperviamente. Ma anche nel rifiuto di toccare l’altro si instaura una gerarchia.
Durante la tappa romana del tour di presentazione di Il detective sonnambulo, alla Libreria AltroQuando, si riunì come di rito una piccola coorte attorno a Santoni. Oltre ad amiche, amici, artiste ed artisti affermati, detective sonnambuli come Martino che tentano la metamorfosi in detective selvaggi all’Arturo Belano. Una fumettista underground; una guida psichedelica; una mezza scrittrice (che poi sarei io). Tutte flesse nello strillo interiore “Pietà, Shakti Devi, la tocchi!”. Perché, per quanto possa essere umiliante flettersi in una posizione di subalternità, “tutti i poeti hanno bisogno di un padre”; e se, come continuava Arce, alcuni poeti sono “orfani per vocazione” e come Belano non tornano più, in realtà è solo perché hanno annusato l’austerità di un padre che per il timore di sporcarsi nella melma altrui e viceversa, diventa anaffettivo (Santoni, in ogni caso, la subalternità proprio cerca di obliterarla, del resto, appunto siamo tuttə libertarə). “L’uomo più insignificante è in grado di prendere decisioni che spettano soltanto ai re” scrive Bernhard in Gelo, e continua poi, attraverso la voce di un pittore ritirato fra i monti in preda a un male dell’animo: “Attorno a me s’era riunita un’intera generazione d’usurpatori formata da tre quattro cinque sei persone in cerca, come me, di ciò che è straordinario, che erano precipitate nell’indigenza dei loro sentimenti”.
Anche attorno a Santoni si è riunita questa generazione di “usurpatori” sonnambuli alla ricerca di ciò che è straordinario, ma lui decide di non seguire l’esempio di Arce: non rifugge dal tocco, perché il rifiuto innesta una gerarchia e allora, come Shakti Devi, “prende in braccio la bimba, le mette una mano sulla fronte e sillaba un mantra adatto alla situazione”, così si trasforma in un Manfredi Contini Della Torre in potenza, che le sue fortune non se le tiene strette covandole come un dragone, ma le condivide, le investe in filantropismo. Ma anche l’aiuto innesta una gerarchia e quindi se, parafrasando Cortázar, fare letteratura significa scrivere attorno a una domanda, nel senso più tormentoso del termine, la domanda di Santoni è forse: quando hai un potere, come usarlo per il mutuo soccorso? Come abolire le gerarchie? Come non sprofondare nei deliri di onnipotenza di demiurghi e demagoghi? Domanda riassunta perfettamente nel titolo di una canzone dei La Quiete, Cosa sei disposto a perdere?
Se fare letteratura significa scrivere attorno a una domanda, nel senso più tormentoso del termine, la domanda di Santoni è forse: quando hai un potere, come usarlo per il mutuo soccorso? Come abolire le gerarchie? Come non sprofondare nei deliri di onnipotenza di demiurghi e demagoghi?
Manfredi proprio buttandosi nell’investimento più elefantiaco cede del tutto alla pulsione di onnipotenza e non può fare a meno che proclamarsi re dello Schloss. E allora, come il pittore di Gelo, vede “tentativi di migliaia di ideali restare impigliati fra i vetri delle mie finestre mentre il fumo delle sigaretta saliva in alto”, dunque giunge l’orrore: “tutto era fantasmatico anche perché l’irraggiungibile poteva venir soffocato con tanta facilità”. Investito dalla sconfortante epifania di essere un demiurgo fallimentare (nonostante tutte le vasche di deprivazione sensoriale e tutti gli psichedelici, la dissoluzione dell’ego non è mai totalitaria, l’abolizione delle gerarchie di matrice anarchica non è mai assoluta), si trasforma in un Nerone che della sua fortezza infine vuole solo diventare il distruttore. Perché non è mai stato demiurgo. Di fatto, Manfredi, era solo demagogo. La richiesta muta e disperata di Manfredi, la troviamo in un altro libro sulla fondazione di un culto (quello del Caso/Caos) L’uomo dei dadi (2017), di Luke Rhinehart: “lei mi deve aiutare a soddisfare un io in modo tale che gli altri sentano in qualche modo di essere stati tenuti in considerazione. […] Lei deve aiutarmi a riprendermi e a smetterla di disperdermi in questo maledetto universo senza mai concludere niente”.
Santoni non è Shakti Devi, e non è Manfredi Contini Della Torre. Come i personaggi creati dai romanzieri non sono mai i romanzieri stessi, ma degli oggetti magici da incantare e in cui inscrivere le proprie paure (interessante a questo proposito la riflessione sulla magia alchemica vs autotrascendente nella scrittura nell’articolo Santoni come educatore – Logomachia postmoderna tra Zandomeneghi e Santoni intorno a Dilaga ovunque.) Ma Santoni, si diceva, è una figura di riferimento. E non credo nel corso degli anni di essere stata l’unica a interrogarlo – un po’ alticcia, un po’ disperata – sui compromessi fra anarchia, lavoro culturale e arte. Cosa sei disposto a perdere? Non c’è nulla di più pericoloso, del resto, che perseguire la strada del bene. Che più che di bene di per sé, poi, si tratta sempre di morale autonoma. Da “anarcobomber” come Alfredo Cospito, Francisco Solara, Theodore Kaczynski – per il bene, il compromesso della violenza, della reclusione – passando per il neoculto di Luigi Mangione; fino ad arrivare alla comune Rajneeshpuram di Osho e alla setta della Manson Family. Cosa sei disposto a perdere?
Santoni è una figura di riferimento. E non credo nel corso degli anni di essere stata l’unica a interrogarlo sui compromessi fra anarchia, lavoro culturale e arte. Cosa sei disposto a perdere? Non c’è nulla di più pericoloso, del resto, che perseguire la strada del bene.
Per tornare quindi al sonnambulismo, abbiamo da una parte la condizione di artistoide fuori tempo massimo di Martino (il seguace del culto), che in assenza di nuovi valori si appoggia alla nostalgia di una poetica morta, e a figure carismatiche a cui assoggettarsi; e dall’altra quella di Manfredi. Anche lui detective sonnambulo prima di tutto nella ricerca di un senso più grande, di grandi gesti psicostorici che possano mutare il mondo, a cui però si rapporta più come intelligenza artificiale che come essere umano. Simula una coscienza ma in realtà sta solo agendo in termini probabilistici, appiccicando sequenzialmente la parola o il gesto che statisticamente sembrerebbe aderire meglio attraverso, appunto, i classificatori probabilistici Naïve Bayes. Le stesse intelligenze artificiali che, fra le altre cose, hanno in parte sostituito gli investitori nei trading di crypto; questione spiegata molto bene in un passaggio verso la metà del romanzo.
Ricordi quando Elon comprò Twitter e mise le “spunte blu”, ovvero l’autenticazione degli account, a pagamento invece che fondate sulla reputazione effettiva? A un certo punto la gente cominciò a creare falsi account di multinazionali, a verificarli con cinque dollari, e a condizionare il mercato… Uno di questi adorabili pirati creò l’account della Eli Lilly Pharmaceuticals e scrisse che di lì in poi l’insulina negli Stati Uniti sarebbe stata gratuita, e woom, ventidue miliardi di dollari bruciati in un attimo. Ti dirai, ma quale investor può essere tanto scemo da credere a un tweet così chiaramente fasullo? La risposta è: nessuno. Il tweet era stato processato dalle intelligenze artificiali, che ormai investono da sole: vedendo la spunta blu, e non conoscendo ancora l’ironia, il paradosso lo hanno preso per buono, del resto alimentano il sogno con frammenti di realtà già spuri, privi di una loro coerenza… La creazione è un’altra cosa, è tutt’altro potere.
Poi Manfredi è sonnambulo anche nella letargia che nel corso del libro si fa parassiticamente strada in lui: quella di un uomo che si avvicina al divino (il creatore del culto): monologava lo schiavo Lucky in Aspettando Godot che Dio si riconosce per la sua divina apatia, per la sua divina atambia, per la sua divina afasia. Ok, primo motore immobile. L’apoteosi del potere si consacra in quella consapevolezza da pachidermi che, sì, battere una zampa per terra ribalta un microcosmo, ma nello smisurato frattale cosmico l’ordine rimane invariato.
Il romanzo diventa l’autopsia del sonnambulismo, una tassonomia della disfatta perché, insomma, non è che si deve affrontare l’esistenza come una guerra, ma sempre meglio conoscere il proprio nemico.
Quindi tutto ‘sto giro per tornare solo a un posticciume leopardiano? Mi si potrebbe giustamente dire. Kind of. Perché è questo sonnambulismo letargico di Manfredi che alla fine lo distrugge. Ma se la domanda attorno a cui gira la scrittura nel Detective sonnambulo, dicevamo prima, è: come non crollare come Manfredi? Ma anche: come non impaludarsi come Martino? Allora ok. Il romanzo diventa l’autopsia del sonnambulismo, una tassonomia della disfatta perché, insomma, non è che si deve affrontare l’esistenza come una guerra, ma sempre meglio conoscere il proprio nemico.
e allora torniamo alla street, la tekno, la notte, al mio sentirmi emulazione sonnambula di una sottocultura morente, alla costante ricerca di spettri da mettere sotto resina. Sicuramente più Martino, ma anche un poco Manfredi nel suo essere talvolta più algoritmo che umano, e perché ricordo quel senso di scottatura gassosa nel retro della nuca quando lessi Il ciclo delle Fondazioni di Asimov e pensai che non ci fosse nulla di più sensato e rassicurante della psicostoria, e ricordo il senso di sbenedicenza marcescente quando scoprii che era tutta una grossa cazzata. Ma ricordo ancora meglio una grossa piazza nel centro di Roma infestata da carrozzoni-murodicasse, centinaia di facce rotte a ballare e di fronte a noi una piramide che in realtà non guarda quasi più nessuno: il monumento funebre a una gerarchia estinta, dimostrazione che molte altre ancora se ne possono ribaltare, abolendo le dicotomie, le tripartizioni, spandendosi capillarmente nell’orizzonte. E la musica che riverbera anche quando l’impianto è spento e la 5-MAPB è scesa, beviamo due, tre, cinque birre, senza dire niente, solo bevendo e guardandoci a vicenda, finché dal sonnambulismo siamo già stati, di nuovo, risucchiati.