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Lo psichiatra Claudio Mencacci: «I nostri ragazzi sempre più aggressivi. L’effetto dei social è di rendere normali anche i gesti violenti»
SSalute mentale

Lo psichiatra Claudio Mencacci: «I nostri ragazzi sempre più aggressivi. L’effetto dei social è di rendere normali anche i gesti violenti»

  • 17 Settembre 2025

di
Riccardo Bruno

Lo specialista: «Va insegnata loro l’empatia. Percepiscono un’autorità debole. Tra genitori e figli il dialogo è scarso»

Una bambina di Sulmona abusata dall’età di dieci anni da maschi poco più grandi di lei; un bimbo di 8 aggredito in un parco alla periferia di Roma da tre fratellini; un quattordicenne che si è tolto la vita a Latina perché non avrebbe più tollerato le angherie dei bulli. Tre storie e tre contesti completamente diversi, tutti però con protagonisti giovani o giovanissimi. Professore, vede un filo comune?
«Se c’è, è proprio quello dell’aumento dell’aggressività giovanile, sia diretta verso l’esterno che verso se stessi», risponde Claudio Mencacci, psichiatra e presidente della Società italiana di Neuropsicofarmacologia.

Perché episodi di questo tipo sembrano sempre più frequenti?
«Sono tanti i fattori che si intersecano: una cultura individualistica, uno scarso dialogo tra genitori e figli. Ma quello che colpisce di più, come nel caso di Sulmona, è che questa forma di prevaricazione è spesso influenzata dai media e dalla tecnologia».



















































In quel caso i filmati sono stati condivisi su WhatsApp.
«Filmare o filmarsi è la nuova moneta sociale perché soddisfa non solo l’impulso di essere notati ma anche di esercitare una sorta di supremazia all’interno di un gruppo, fare qualcosa che colpisce l’attenzione altrui».

Anche nel caso di video dal contenuto raccapricciante?
«È un sistema che premia i contenuti più scioccanti, quelli più estremi. I gesti violenti hanno più facilità di diventare virali rispetto a quelli positivi. Così si assiste sempre di più a normalizzazione della violenza: perché da un lato, anche se il modello è negativo, trova sempre i suoi influencer e si guadagna in popolarità; dall’altro perché prevale una sorta di disinibizione online, le persone fanno, dicono o filmano cose gravissime ma credono di essere in qualche modo protette o nascoste nella rete».

È soltanto colpa dei social?
«No, ma in questi casi c’è l’idea che la sopraffazione passi sempre attraverso l’umiliazione pubblica, non è diretta solamente verso la persona che la subisce ma tutto viene condiviso».

Sentono di poter agire in modo impunito.
«L’altro grande assente è il senso di autorità, una difficoltà a pensare che c’è una conseguenza alle proprie azioni. È vero che in questi casi i protagonisti sono giovanissimi, e per loro può essere più difficile comprenderlo. Ma in genere l’autorità è percepita come debole o, in alcuni casi, addirittura come ingiusta. La domanda allora è: ma gli adulti danno l’esempio?».

C’è più carenza delle famiglie o di istituzioni come la scuola?
«Di entrambe, nel senso che sono lontane da una funzione educativa che è fondamentalmente sociale: ovvero quella di insegnare il riconoscimento dell’altro, la condivisione, la solidarietà e il rispetto reciproco. I genitori sono sempre più assenti e la scuola viene vista solo come un luogo di valutazione o, peggio, di parcheggio. I giovani imparano a gestire l’emotività osservando il comportamento degli adulti, cosa possono apprendere se di fronte al minimo problema li sentono ululare o inveire contro l’altro».

Perché questo tessuto educativo si sta sfilacciando?
«Il peggioramento complessivo è legato al prevalere della cultura dell’individualismo».

Le ragioni?
«È un processo lungo, il messaggio di pensare solo a se stessi a scapito della comunità si è insinuato da tempo. E la condizione attuale che premia ancora di più questi atteggiamenti ha sicuramente fatto esplodere il fenomeno. Questi sentimenti caratterizzati da impulsività, rabbia, aggressività, prevaricazione hanno poco a che fare con il senso di comunità».

Da dove partire per invertire la rotta?
«Da un lato dovremmo tornare a insegnare a gestire le emozioni e dall’altro a coltivare l’empatia. Che a volte si confonde con il buonismo, ma non è la stessa cosa: è il riconoscimento della propria e dell’altrui dignità, la comprensione che certi gesti violenti non premiano ma ti fanno intascare una moneta sociale che non ha alcun valore».

Ci sono delle figure positive?
«Certo, e vanno promosse maggiormente, anche sui social e sui media. E poi i giovani vanno coinvolti nella costruzione di nuove regole. Il mondo sta cambiando, ed è chiaro che abbiamo la necessità di riuscire a trovare dei punti che uniscano le generazioni. Non funziona più il semplice passaggio di testimone senza un momento trasformativo. I tempi si sono accelerati rispetto alle generazioni che ci hanno preceduto, i valori attuali sono molto diversi rispetto ai decenni scorsi. La nostra epoca è dominata dalla volatilità e dall’imprevedibilità. Per questo dobbiamo rinforzare tutte le comunità che educano: la famiglia e la scuola. Senza dimenticare il rispetto per il proprio territorio e l’ambiente. Perché questo sarà il luogo dove vivremo».

16 settembre 2025

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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