di
Gianni Santucci
Nel 1965 furono sequestrate seicento tele false e sei persone arrestate: erano responsabili di un giro di opere fasulle che però venivano firmate dai pittori celebri con l’inganno (come le tele sostituite in casa di de Chirico mentre ci lavorava). La verità rivelata da una maxi inchiesta milanese
Il maresciallo Navarra partì da Milano col compito più gravoso della sua carriera. Interrogare Giorgio de Chirico. Erano i primi di giugno del 1965. Nella casa romana del pittore, il maresciallo iniziò a spiegare. Fece ricorso alle parole più accorte. Il maestro rimase incredulo. Aveva 77 anni. Era una celebrità dell’arte mondiale. Si prese una pausa per riflettere. Alla fine ammise che sì, forse era potuto accadere. Era possibile che i trafficanti gli avessero «carpito con l’inganno qualche autenticazione». Ingegnoso sistema. Smontavano dal telaio un quadro realmente dipinto dall’artista. Alla tela autentica, ne infilavano sotto una falsa. Poi rimontavano le due tele sovrapposte dentro una cornice.
Autografando il retro, de Chirico metteva la propria garanzia sul quadro falso. Non che chiunque potesse andare a casa dell’artista a chiedere un’autentica: e infatti nella maxi inchiesta milanese rimasero impigliati galleristi quotati e mercanti d’arte internazionali, più un anziano professorone col curriculum debordante di incarichi assegnati dai Tribunali, perito e arbitro in controversie giudiziarie d’ambito artistico. E poi loro: pittori senza fama, ma d’altissima maestria. Li chiamarono i «pirati del pennello». Alla fine di giugno di cinquant’anni fa, in questura, finirono ammassati oltre seicento quadri sotto sequestro. De Pisis, Rosai, Sironi, Casorati, alcuni Morandi e de Chirico, qualche Guttuso. Un museo. Tutte «croste».
L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità criminale. Caddero due gallerie di Milano centro: prima la «Mediolanum», all’incrocio tra via Pattari e corso Vittorio Emanuele, poi la «Diamante» di via Pisoni, piccola traversa di via Manzoni. Da Londra, Sotheby’s e Christie’s spiegarono d’aver rifiutato nei mesi precedenti una serie di De Pisis e Rosai offerti dall’Italia. I periti delle case d’asta li giudicarono fortemente sospetti. In carcere finì pure un mercante toscano, galleria a Firenze e domicilio a Milano, «alloggiato presso un’amica, ex-entraineuse di ventisei anni», in via Cambiasi 8, al Casoretto. Nell’abitazione «venivano trovate e sequestrate una quarantina di tele false: un vero e proprio campionario delle “firme” di autori più facilmente imitabili». I poliziotti milanesi sequestrarono quadri a Cortina, Belluno, Roma, Vicenza, Imperia, Monaco di Baviera. E identificarono i due maggiori artisti/copiatori. Il primo: Amleto Pedrazzini, da Legnano, cinquant’anni, una sorta di capo bottega rinascimentale, dirigeva allievi in scuola dell’imitazione. Una scuderia di pittorucoli dilettanti stendevano il fondo, tratteggiavano figure, si spingevano a definire le composizioni fin dove le loro capacità consentivano.
Poi interveniva la mano dell’Amleto: per i dettagli, le correzioni, i passaggi più complessi, le nuance di colore che i sottoposti non riuscivano a individuare. Un abbozzo grossolano sbocciava in capolavoro. A Firenze lavorava invece il Tullio Bartoli, d’anni quarantatré, abilissimo replicatore e forse qualcosa di più: talmente virtuosa e sicura era la sua mano, da far sospettare una sorta di transfer con lo spirito di Ottone Rosai. Di questo artista (e di De Pisis) Bartoli si vantava di poter riprodurre qualsiasi opera in meno di un’ora. Prendeva 30 mila lire a tela e lavorava in solitudine a ritmi industriali. Al momento dell’indagine, stava completando una commessa di 150 Rosai per una galleria milanese.
Nessuno dei due «falsari» si giustificò dicendo che tale Andy Warhol, in quegli anni, a New York, stava cambiando la storia dell’arte con le sue immagini copiate e riprodotte in serie. Che era esattamente il loro mestiere: ma loro almeno facevano tutto a mano libera.
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27 luglio 2025
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