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Dopo la periodica riunione del Consiglio dei governatori la Federal Reserve, la banca centrale statunitense nota semplicemente come FED, ha deciso di abbassare i tassi di interesse di riferimento di 0,25 punti percentuali, portandoli da un intervallo compreso tra il 4,25 e il 4,5 per cento a uno tra il 4 e il 4,25 per cento. Era una decisione molto attesa, dopo mesi in cui la FED li aveva mantenuti invariati, alimentando un caso politico negli Stati Uniti per via delle grandi critiche del presidente Donald Trump, che chiedeva di ridurli e ha anche minacciato di licenziarne presidente e consiglieri.
Erano stati alzati dopo il 2022 dalla FED (ma anche dalle altre banche centrali delle economie avanzate) per contrastare l’inflazione innescata dalla pandemia di Covid-19 e poi dalla guerra in Ucraina. Ora invece iniziano a esserci più preoccupazioni riguardo al livello di disoccupazione.
Trump, secondo cui l’inflazione è un fenomeno risolto, ha quindi iniziato a chiedere con insistenza l’abbassamento dei tassi, anche per via di alcuni segnali che indicano un rallentamento dell’economia statunitense; finora il presidente della FED Jerome Powell e gli altri consiglieri invece avevano detto che bisognava essere cauti perché i prezzi sarebbero potuti aumentare di nuovo a causa dei dazi imposti dallo stesso Trump, che rendono le importazioni più care e quindi contribuiscono ad aumentare il costo generale della vita. Nella conferenza stampa tenuta dopo l’annuncio della riduzione Powell ha manifestato una certa preoccupazione per il mercato del lavoro e lo stato dell’economia statunitense.
Solo la FED può prendere decisioni sui tassi di interesse di riferimento, e lo fa in modo autonomo e indipendente dal governo. Per statuto la banca centrale ha due obiettivi: controllare l’aumento livello dei prezzi, che deve essere il più possibile stabile e vicino al 2 per cento annuo, una soglia generalmente associata a un’economia sana; e la piena occupazione, cioè la massima quota di persone che lavorano date le condizioni dell’economia. Lo strumento che utilizza sono proprio i tassi di interesse: le banche centrali li fissano e aggiornano periodicamente, e questi sono poi un riferimento per i tassi offerti dalle banche ai loro clienti e per tutto il mercato finanziario.
È impossibile sapere quanto la decisione sia motivata da concrete ragioni economiche e quanto dalle pressioni di Trump. Il calo era comunque abbastanza atteso perché il mercato del lavoro aveva iniziato a mostrare qualche segno di rallentamento. Tuttavia l’inflazione aveva mostrato un significativo aumento, ed era arrivata al 2,9 per cento: questo aveva reso la decisione non del tutto scontata, dato che i due movimenti (quelli dell’occupazione e dell’inflazione) richiedono soluzioni opposte. In questo caso significa che la FED ha iniziato a temere più un rallentamento dell’economia che le incertezze su futuri aumenti dei prezzi, come ha anche detto nel comunicato che ha accompagnato la decisione. Ci spieghiamo.
(AP Photo/Seth Wenig)
Quando le banche centrali aumentano i tassi di interesse o li tengono a un livello alto, come ha fatto la FED recentemente, sperano di rallentare l’attività economica quanto basta per limitare l’aumento dei prezzi, cercando di non arrivare a una recessione. Sebbene alzare i tassi sia considerata la tecnica più efficace per tenere sotto controllo i prezzi, la politica non ama i suoi effetti, tra cui il consistente aumento del costo dei mutui e degli interessi sul debito pubblico.
Quando l’inflazione è stabile, i tassi possono restare fermi oppure essere abbassati per stimolare l’economia e favorire un aumento dell’occupazione. Tassi più bassi consentono di prendere a prestito soldi dalle banche a prezzi minori, e alla lunga stimolano gli investimenti e la crescita: in certe condizioni rischiano però di far aumentare i prezzi e quindi di far ricominciare tutto da capo. Nel caso degli Stati Uniti c’è un’ulteriore possibilità: che i dazi di Trump facciano aumentare i prezzi, e che quindi servano tassi alti per contrastarne la crescita.
Questo meccanismo spiega da una parte la ritrosia della FED ad abbassarli, e dall’altra le pressioni di Trump, che negli scorsi mesi ha pubblicamente insultato e minacciato di licenziare Powell. Tra i nomi che gli ha dato c’è “Mr. Too Late”, “Signor Troppo Tardi”, perché a suo dire starebbe aspettando troppo ad abbassare i tassi, mettendo a repentaglio la crescita dell’economia.
L’argomento di Trump non è del tutto infondato: la FED si è mossa in modo diverso dalle altre grandi banche centrali del mondo. Oggi i tassi statunitensi sono superiori al 4 per cento, quelli della Banca Centrale Europea sono poco sopra il 2. Da luglio dell’anno scorso la Banca Centrale Europea ha abbassato i tassi di interesse per otto volte consecutive, quasi dimezzandoli; la FED solo quattro volte, compresa la decisione di mercoledì. Decisione che è arrivata dopo una pausa di nove mesi, in cui Powell aveva sempre detto che erano le stesse politiche di Trump sui dazi a mettere a repentaglio la stabilità dei prezzi, e quindi a non consentire una riduzione.
Trump finora è riuscito a fare moltissime cose – sull’immigrazione, sui dazi, e via così – salvo influenzare le decisioni sui tassi e licenziare Powell. La FED, come praticamente tutte le banche centrali moderne dei paesi avanzati, è un’istituzione indipendente per statuto: deve prendere le decisioni sulla base di come va l’economia e senza l’intromissione dei governi, che in passato per inseguire i consensi avevano prodotto tassi slegati dalla realtà e frequenti fasi di inflazione altissima e sovraindebitamento.
È per queste ragioni che Powell in questi mesi ha potuto resistere alle pressioni di Trump sui tassi di interesse, nonostante lui lo chiamasse pubblicamente «stupido», «testa di legno», «poco furbo» e «testardo come un mulo», solo per fare qualche esempio. «Lo chiamo con tutti i soprannomi possibili e immaginabili nel tentativo di convincerlo a fare qualcosa», ha detto una volta (tra l’altro fu lo stesso Trump a nominare Powell presidente della FED, nel corso del suo primo mandato: il suo incarico scade a maggio del 2026).
Al di là delle minacce contro Powell, che non hanno prodotto ancora alcun effetto concreto, nelle ultime settimane Trump ha cercato di cacciare Lisa Cook, che fa parte del Consiglio dei governatori e partecipa alle decisioni sui tassi di interesse: è una decisione senza precedenti negli Stati Uniti. Cook è la prima donna afroamericana all’interno del Consiglio e fu nominata nel 2022 dal presidente Joe Biden.
Jerome Powell con Lisa Cook, a giugno (AP Photo/Mark Schiefelbein)
Trump l’ha accusata di aver prodotto documenti falsi per pagare meno un mutuo, nel 2021. Cook si è difesa dicendo che non c’era stato alcun provvedimento legale contro di lei, e ha fatto causa al presidente sostenendo che non avesse l’autorità per licenziare un membro del Consiglio. Per ora sia il tribunale di primo grado che quello di appello hanno bloccato il licenziamento, ma è possibile che Trump faccia ricorso alla Corte Suprema, i cui giudici sono per la maggior parte di orientamento conservatore. Il dipartimento di Giustizia, un organo che fa parte dell’amministrazione e che ha sia le funzioni di un ministero sia quelle di pubblica accusa, l’ha messa sotto indagine per frode.
Mentre cercava di licenziare Cook, Trump è riuscito a inserire nel Consiglio della FED un suo consigliere fedelissimo, Stephen Miran, che ha sostituito una consigliera che si era dimessa a inizio agosto con qualche mese di anticipo rispetto alla scadenza del suo mandato. Miran è stato confermato dal Senato solo due giorni fa, ma in tempo per la votazione che ha portato alla decisione di mercoledì.
Miran è stato l’unico consigliere a non approvare la riduzione di 0,25 punti percentuali dei tassi, dato che voleva una riduzione maggiore, di 0,5 punti percentuali.
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