Sarà che siamo in piena rentrée editoriale, e ogni giorno annunci di rutilanti novità ingolfano le caselle email di chi per mestiere si occupa di libri, ma dopo un’estate passata a piangere sulla scarsa propensione alla lettura del pubblico italiano e globale, pare tornato il tempo dell’ottimismo – cauto, ça va sans dire, ma fiducioso. E del resto, se questa massa di carta deve trovare qualcuno che sia disposto ad aprire il portafoglio, forse ripetere che il numero dei lettori continua a sprofondare non è la strategia più intelligente.
Rientra in questo clima di rinnovato slancio l’ultimo numero di «Bookmarks», la newsletter letteraria del Guardian, tutto dedicato ai trionfi dell’editoria indipendente britannica e statunitense.
Certo, classifiche e premi sono ancora territorio privilegiato dei Big Five, i cinque gruppi che dominano il mercato anglosassone (tanto per dare un’idea, sui tredici titoli che compongono la longlist del Booker Prize, cinque sono stati pubblicati dal gigante Penguin Random House), ma le case editrici indipendenti crescono e si mettono in luce.
Un caso citato da «Bookmarks» è la sigla And Other Stories, che ha sede a Sheffield e, a proposito di premi letterari, ha vinto l’International Booker Prize di quest’anno con Heart Lamp dell’indiana Banu Mushtaq, una raccolta di racconti scritta in lingua kannada e tradotta in inglese da Deepa Bhasthi.
Secondo Michael Watson, addetto stampa della casa editrice, è «istruttivo» notare che i candidati di questa edizione siano stati tutti pubblicati da editori indipendenti: gli indie, infatti, dice Watson, sono «quelli che spesso pubblicano gli autori e i libri più interessanti e coinvolgenti, sperimentando soluzioni innovative, nonostante le sfide cui devono fare fronte».
Alcune caratteristiche sembrano accomunare le pubblicazioni di queste sigle coraggiose: le copertine austere (come quelle di Fitzcarraldo, blu per la narrativa e bianche per la non-fiction), probabilmente una scelta legata a vincoli economici, ma utile per rendere subito riconoscibili i volumi in libreria; oppure l’appellativo Editions, una tendenza che adesso pare fare scuola anche presso le major. Di recente il marchio Scribner, di proprietà di Simon & Schuster, ha annunciato la decisione di lanciare nel 2026 un nuovo imprint, Scribner Editions appunto, a dimostrazione «che i grandi stanno osservando l’improbabile successo di alcuni piccoli editori e cercano di incorporare un po’ di questa magia nelle loro strategie».
Se l’enfasi sul successo delle sigle indipendenti rischia di apparire esagerata (perlomeno in Italia gli ultimi dati rivelano una maggiore sofferenza proprio delle case editrici piccole e medie), è vero che paradossalmente gli indie, non dovendo rendere conto ai grandi azionisti, possono permettersi una libertà di azione maggiore.
Fra i dati citati da «Bookmarks», ce n’è uno di particolare interesse: nel mercato anglosassone, dove fino a pochi anni fa i libri provenienti da lingue diverse dall’inglese erano un’eccezione (il 3% della produzione totale), le case editrici piccole e medie come Pushkin Press, Granta o Fitzcarraldo hanno puntato molto sulle traduzioni e questo azzardo è stato ricompensato, visto che quasi la metà della narrativa tradotta viene acquistata da lettori e lettrici under 35.
I bilanci si tireranno solo più avanti, a stagione editoriale inoltrata, ma intanto «Bookmarks» segnala che a febbraio 2026 il Southbank Centre ospiterà la prima Indie Night, celebrazione corale dell’editoria indipendente britannica, «terreno nutritivo da cui cresce tutto ciò che è positivo e progressista nella nostra letteratura», secondo Max Porter, scrittore in residenza presso il centro culturale londinese.