di
Chiara Baldi
Giacomo Zani, presidente di Mica Macho: «Paolo Mendico non è morto perché era “fragile” o perché era un “diverso”. È morto perché lo facevano sentire come se non appartenesse alla categoria del “maschile”»
La mancanza di empatia di genere, l’assenza di fratellanza, il pensare che il mondo sia necessariamente binario e quindi, «se non sei uomo sei necessariamente e senza dubbio donna». L’identità, insomma, è il vulnus della questione maschile oggi. E lo dimostra, secondo Giacomo Zani, classe 1996, presidente di Mica Macho, associazione no-profit che dal 2020 si è data l’obiettivo di «ripensare il maschile» e che quest’anno, per la prima volta, organizza a Milano in collaborazione con il Comune il festival “Hey Man“, la drammatica vicenda della morte di Paolo Mendico, il 14 enne che a Latina si è tolto la vita perché preso di mira dai bulli in una scuola che non lo ha protetto. «Una vicenda drammatica che deve obbligare noi maschi e tutta la società a una riflessione profonda: le pressioni sociali nei confronti degli uomini sono fortissime ma non vengono mai individuate come un problema», dice Zani.
Paolo Mendico portava i capelli biondi lunghi, gli piaceva fare musica e amava andare a pescare con suo papà. I compagni lo chiamavano, per questo, «Paoletta». Cosa l’ha colpita di più di questa vicenda che ha di certo scosso l’opinione pubblica?
«Non mi ha stupito la narrazione che ne è emersa, purtroppo. Nelle nostre raccolte di testimonianze da parte di uomini sono innumerevoli quelli che raccontano di essere stati sbeffeggiati per il loro aspetto, per non essere “abbastanza maschi”. E non solo da altri uomini. La realtà è ancora questa: nel 2025 ci sono ragazzini che vengono presi di mira se portano i capelli lunghi, se non si conformano allo stereotipo. C’è un pregiudizio fortissimo che attraversa tutta la società».
Spesso quando si parla di bullismo si cercano le cause immediate: la parola sbagliata dell’insegnante, il bullo di turno. Lei invece punta il dito altrove.
«Esatto. Il rischio è che andiamo a cercare le microcause e questo ci porta lontano dal vero problema. La domanda che dovremmo farci è: perché un ragazzo che non è aderente allo stereotipo viene preso di mira con una violenza così sistematica? E perché questa discriminazione è così forte da portare una persona al suicidio?».
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Lei che risposta si è dato?
«Bisogna dirlo chiaramente: Paolo non è morto perché era “fragile” o perché era un “diverso”. È morto perché il cuore della discriminazione che ha subito era farlo sentire come se non appartenesse alla categoria del “maschile”. Lo chiamavano con nomi femminili non per offendere le donne, ma per dirgli implicitamente che non era un uomo. In un mondo binario come il nostro, se non sei uomo allora sei donna».
C’è una differenza tra il bullismo che subiscono i maschi e quello che subiscono le femmine?
«Assolutamente sì. Nel femminile spesso è collegato al fenomeno dello slutshaming, alla sessualità, al revenge porn. Nel maschile è molto legato all’identità, a come ci si presenta al mondo. È interessante notare come nessuno mette mai in dubbio che una donna sia una donna – a parte nei discorsi transfobici – mentre per gli uomini l’appartenenza alla categoria è continuamente messa in discussione».
In che modo?
«Guardiamo alla sfera sessuale. Anche questo aspetto, quando si parla di maschi, viene ricondotto all’identità: se sei vergine dopo una certa età, non sei considerato un vero uomo. E anche questo si riconduce al tema dell’identità».
La scuola, gli insegnanti, le istituzioni. Tutti sembrano aver fallito nel caso di Paolo.
«Non mi stupisce che gli insegnanti non abbiano preso in carico la questione: come dicevo, la questione maschile non è ancora riconosciuto come un tema rilevante per la società. Il revenge porn, per esempio, è riconosciuto: nel momento in cui viene denunciato, la rete sociale accoglie il problema in modo diverso, se ne parla grazie all’attivismo femminista.
Ma nella controparte maschile siamo noi uomini a non parlarne. Quindi perché la società dovrebbe riconoscere un problema che noi stessi non riconosciamo? Non c’è un sentimento di empatia di genere, di fratellanza, che ci fa capire da uomini che quello che è successo a Paolo non è successo perché era “sfigatino” e c’erano i bulli. È successo perché le aspettative sugli uomini sono altissime e impattano gravemente sulla vita dei ragazzi».
Lei parla spesso di “aspettative sociali opprimenti”. Cosa intende?
«Quando muore una donna per femminicidio, c’è una risposta collettiva in cui le donne sentono che quella era una loro sorella, morta in quanto tale in un sistema che la opprime. Se noi non riconosciamo che ci sono delle aspettative sociali opprimenti sugli uomini, non riusciremo mai a far cambiare la società. Le forme di queste aspettative sono tante: la repressione dell’emotività, la difficoltà a parlare e chiedere aiuto. Gli uomini fanno molta meno prevenzione medica, ad esempio: mentre una ragazza sin da giovanissima viene portata dal ginecologo, un ragazzo quasi mai frequenta l’andrologo. E poi, c’è il tema del lavoro».
Ovvero?
«La maggior parte dei suicidi maschili da adulti avviene per questioni lavorative. Agli uomini viene dato valore per quello che fanno, non per quello che sono. Se perdi il lavoro sei un fallito. Questa è una differenza enorme con il femminile, anche per tutte le difficoltà che hanno le donne sul lavoro».
Quando c’è stato il caso di Giulia Cecchettin voi siete intervenuti pubblicamente, come gruppo di uomini che voleva dare un segnale al genere. Perché?
«Il messaggio che abbiamo voluto portare è che noi, da uomini, ci sentiamo male a sapere che c’è un altro uomo che ha voluto fare quel gesto. Ci siamo messi nei panni dei suoi amici e fratelli. Quella è la rappresentazione classica di “All men” (dalla frase “not all men but always a man”, usata dalle femministe nei casi di femminicidio per rivendicare la natura della violenza, ndr): tutti noi dobbiamo sentire di avere qualcosa in comune con quell’uomo, che è cresciuto esattamente come noi. Il problema è, invece, che oggi gli uomini si sentono individui e non collettività per cui i loro problemi sono visti come individuali. Parafrasando Judith Butler, finché non parliamo del maschile, il maschile rimane invisibile. Sembra un paradosso ma non lo è: finché la mascolinità non diventa un tema, la prendi come standard e non vedi la correlazione tra quello che siamo e quello che succede».
Cosa si può fare concretamente per evitare altre tragedie come quella di Paolo e per far sì che la “questione maschile” venga affrontata?
«Partiamo dagli strumenti normativi: il congedo di paternità è ridicolo, va ampliato. Serve investire nella prevenzione sulla salute mentale. Nel terzo settore bisogna costruire spazi in cui tra uomini si possa parlare dei propri problemi. Noi come associazione da tre anni organizziamo gruppi di autocoscienza: gli uomini si iscrivono da tutta Italia dell’essere uomini e dei problemi che questo comporta . È lì che nasce la consapevolezza. Ognuno di noi ha una storia in cui si è dovuto confrontare con queste aspettative. Se non diamo la possibilità di parlarne in privato, è difficile che poi diventi rivendicazione pubblica. Vorrei dire un’ultima cosa su Paolo».
Prego.
«Io capisco i ragazzini che prendevano in giro Paolo. Anch’io l’ho fatto da ragazzino, perché sentivo la pressione di avere successo e status. Tutti gli uomini l’hanno vissuta. È importante che ci sia un movimento del maschile, perché i temi e i problemi ci sono già tutti».
16 settembre 2025 ( modifica il 18 settembre 2025 | 00:04)
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