«Il mondo artistico newyorkese, che ho vissuto e raccontato per cinquant’anni, è in profonda crisi. Il futuro sarà a Pechino». John Yau, 75 anni, critico d’arte, poeta, collezionista di cartoline, conoscitore di miti come Andy Warhol, Jasper Johns e Wifredo Lam, estimatore degli italiani De Pisis, Ontani e De Maria, è nato negli Stati Uniti da una famiglia emigrata dalla Cina, ma ora suggerirebbe il percorso opposto «anche se molti ricchi cinesi vengono a vivere in Occidente e finanziano giovani artisti».
Yau descrive un Paese del dragone saggio «come si vede dalla gestione della tensione su Taiwan dove cerca di evitare la guerra» e «aperto ai talenti stranieri anche se focalizzato a promuovere i propri». Leggenda vivente della critica indipendente dalle logiche di mercato, ospite a Torino di Luci d’artista e della Galleria d’arte moderna, racconta così i suoi inizi: «Quando cominciai a scrivere per Art in America la direttrice mi assegnò le gallerie di cui nessuno aveva sentito parlare. Questo mi ha portato a cercare lontano dalla luce dei riflettori, dove in genere si trovano gli artisti interessanti: sono quelli che provocano emozione, anche se possono deludere perché non sempre durevoli. Vale a New York come in tutto il mondo. A me interessano gli artisti che non si propongono come un brand, che non cercano per forza di avere uno stile, ma che sperimentano e affrontano i problemi della vita. Alex Katz ha uno stile immediatamente riconoscibile, un marchio appunto, mentre Jasper Johns no, perché cambia soggetti e modo di dipingere. Ancora, Kenneth Noland ha un suo modo specifico di lavorare e Thomas Nozkowski no. Lo stile, come dice il poeta Robert Kelly, è la morte».
Yau si smarca pure dal jet set della Grande mela: «Preferisco le gallerie che non seguono le tendenze e ho smesso da anni di andare ai soliti ricevimenti a base di pollo e salmone in cui si parla sempre di soldi». Da bambino racconta di aver visto tanti film che ne hanno acceso l’immaginario, «perché i miei genitori mi parcheggiavano al cinema per non pagare la babysitter. Poi un giorno mi portarono al Museo d’arte di Boston, dove mi colpì La giapponese di Monet: una donna in kimono che interrogò la mia identità birazziale, perché mostrava qualcuno che viveva in due spazi contemporaneamente». Il tema dell’incontro tra culture contraddistingue la sua ricerca: «L’America non è divisa solo tra bianchi e neri, ci sono tante altre popolazioni e incroci. Lo stesso vale per gli artisti. Io ho iniziato occupandomi del cubano Wilfredo Lam, poi ho attraversato generazioni di artisti che pensavo fossero travisati o considerati restrittivamente. L’arte in fondo ci mostra ciò che abbiamo sottovalutato. Tra i tanti che sono riusciti in questa opera includerei Kerry James Marshall, Nicole Eisenman, Thomas Nozkowski, Leda Catunda, William Kentridge, Kathy Butterly, Martin Puryear, Philip Taaffe, Lois Dodd, Robert Grosvenor, Haegue Yang, David Hammons, Liu Xiaodong, Luis Jiménez e Catherine Murphy».
Ma gli artisti possono cambiare il mondo? «Non da soli, ma ognuno col suo lavoro può portare a un’evoluzione complessiva. Marshall per esempio ha contribuito a modificare il modo di vedere l’arte e le esposizioni museali. Lo stesso vale per Xiaodong. E Murphy, una delle mie artiste preferite, ha eliminato la pittoricità dando attenzione alla superficie e a dettagli trascurati». La pittura sopravviverà all’era digitale? «Sì, perché consente di esprimerci da soli, senza l’aiuto di nessuna persona o tecnologia, come la poesia».