«Sono nato in Marocco da genitori di origine italiana. Quando avevo 15 anni i miei sono stati costretti all’esilio a Marsiglia. Per me è stato un trauma. Ho fatto in quegli anni molti lavori, dal marinaio all’elettricista, ma solo la passione per l’arte mi ha aiutato a vincere il senso di sradicamento» a parlare è Bruno Catalano, classe 1960, artista conosciuto in tutta l’area del Mediterraneo, da Marsiglia a Genova, da Montecarlo ad Arcachon, per le sue sculture monumentali che in luoghi pubblici parlano di migranti, di viaggi, dello strazio di sentirsi senza radici. Una sua installazione permanente è collocata davanti al Musee Subaquatique di Marsiglia, ha fatto esposizioni a Venezia, Lucca e Parigi, alcune sue sculture sono approdate a Sydney per la mostra Sculpture by the sea.
Fino ad ottobre una mostra dei suoi lavori è al Centro Culturale di Crest, la cittadina della Provenza dove ha trovato un nuovo rifugio e aperto il suo atelier. «Mi sono innamorato – ricorda – della scultura guardando e riguardando da ragazzo le opere di grandi come Rodin, César e Giacometti. Volevo diventare scultore anch’io, ma non potevo frequentare un’accademia. Ho lavorato in fonderie e ho cercato di imparare. Poi a Marsiglia ho frequentato l’atelier di Françoise Hamel. Dapprima ho iniziato a usare la terracotta e il gesso poi sono stato incantato dal bronzo e dalle sue possibilità».
Al centro del suo lavoro ci sono grandi figure umane in viaggio, con un bagaglio che può essere di volta la sacca povera del migrante ma anche la valigia del turista o dell’uomo d’affari, in tutti i casi la loro figura non è completa e al centro sono attraversati dal vuoto, tanto che a volte ci si chiede come possano rimanere in equilibrio. «Quel vuoto – dice – per me è fondamentale: rappresenta in qualche modo la nostra condizione di esseri umani oggi». L’idea di creare sculture non finite è nata quasi per caso. «In realtà stavo provando a realizzare un certo lavoro in fonderia e per errore la fusione non è venuta perfetta. Ho provato allora a vedere l’effetto che faceva lasciare il vuoto e mi ha convinto al punto da farne una sorta di cifra stilistica del mio lavoro».
Lo si comprende guardando le opere esposte al centro cultura di Crest, nella mostra che lui stesso ha curato in tandem con la galleria Ravagnan di Venezia con cui da tempo collabora. È un viaggio attraverso la sua produzione ma anche un modo per capire le sue passioni, tra cui non mancano l’opera lirica e lo sport. Colpisce in una sala la “marcia” di innumerevoli figure al suono dell’Elisir d’Amore di Donizetti, mentre in un’altra campeggia una scultura in cui le protagoniste sono diventate le valigie: formano una sorta di obelisco su cui fa capolino l’artista stesso. «La valigia o la sacca – spiega – sono inscindibili da chi viaggia, per necessità, lavoro o divertimento. Gli permettono di portare con sé non solo i propri ricordi ma anche i propri desideri. È il luogo in cui racchiudi tutto quello che hai mentre ti sposti, è come se portassi una parte della tua anima». E si potrebbe quasi pensare che il vuoto che le sue figure si portano dentro finisca per contrappasso in qualche modo raccolto in quelle valigie o in quelle sacche. Viene in mente il romanzo, da poco diventato una piéce teatrale, dello scrittore russo Sergej Dovlatov dal titolo La valigia: anche lì un personaggio si trova a fare i conti con il suo passato e con la sua esistenza proprio nel momento in cui deve decidere cosa mettere in valigia prima di emigrare dalla Russia sovietica negli Stati Uniti.
IL COLLOQUIO
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La scultura autoritratto di Catalano, jeans e camicia aperta, la ritroviamo all’ingresso della mostra quasi a guardare e proteggere il suo stesso lavoro. «Mi sembra – dice ancora – di interpretare stati d’animo e realtà a volte dolorose a volte meno che tutti stiamo vivendo. L’essere in viaggio esprime una condizione sempre più frequente. E il fatto che ai miei personaggi manchi una parte della figura credo che approfondisca quel senso di malessere e di vuoto che ci troviamo a sperimentare».
Il lavoro di Catalano si è ormai diversificato, in mostra troviamo tanto piccole silhoutte in gesso, quanto le sue classiche figura a corpo intero. E nello spazio antistante il centro d’arte come in una piazza di Crest, campeggiano altre sue figure monumentali. «Mi piace l’idea di realizzare opere di grandi dimensioni, credo sia un modo di testimoniare in modo ancora più forte quel che si ha da dire». Quest’uso delle grandi dimensioni sembra accomunare Catalano ad un altro scultore contemporaneo, Thomas Houseago, anche se molto distanti sono le poetiche che li animano. Pur usando l’artificio del corpo vuoto Catalano crea sculture che potremmo definire quasi iperrealiste, mentre Houseago crea con materiali diversi sorta di totem in cui tutto è indistinto. Ma cosa può dire oggi un’artista di fronte a un mondo dilaniato dalle guerre e in cui la disumanità sembra trionfare ogni giorno di più? «Io non credo – conclude Catalano – in un’arte politica o direttamente di denuncia, ma penso che attraverso il suo lavoro ogni artista debba testimonia i valori in cui crede».