La valle dei sorrisi è l’horror che non sapevamo di volere, come dice la gente che piace sui social. Dirige Paolo Strippoli, promessa del nostro cinema che guarda a Dario Argento, protagonista è Michele Riondino, sempre molto a fuoco. La trama segue un ex campione di judo che arriva a Remis, paesino sperduto tra le montagne, con un lutto immenso e impossibile da superare. Qui scopre che la comunità ha trovato un rimedio soprannaturale alla sofferenza: gli abbracci di Matteo, un adolescente introverso e sorvegliato dal padre, cancellano il dolore e regalano sorrisi e serenità, ma presto il lato oscuro del meccanismo affiora e travolge le vite di tutti. Non si può rivelare di più perché lo spoiler è dietro l’angolo ma di certo di film horror italiani così convincenti non ne vedevamo da un po’.
Il film è stato confezionato, promozionalmente, come un coming of age (cioè un racconto di formazione) incartato nell’horror – perché forse conviene venderlo così – e c’è del vero: seguiamo il ragazzo che impara a misurarsi con la crescita, con la scoperta della propria identità e del proprio lato oscuro. Ma ridurre La valle dei sorrisi solo a questo rischia di sminuirlo. L’ordito soprannaturale non è fumo negli occhi: l’horror qui è motore autentico della storia, tiene insieme i personaggi e le loro paure, incolla allo schermo senza effetti speciali barocchi. Strippoli costruisce tensione attraverso i silenzi disturbanti, le facce che tacciono più di quanto dicano, i paesaggi alpini che diventano cornice minacciosa. Tutto procede per accumulo: piccoli dettagli, segnali, rituali che sembrano innocui ma che lentamente mostrano l’inquietudine che li genera. Fino al climax finale, che le urla le strappa davvero, senza mai scadere nel puro artificio.
Il merito va anche agli interpreti. Michele Riondino sceglie la strada della sottrazione: il suo dolore non è mai esibito, ma percepito in ogni sguardo e gesto trattenuto. Giulio Feltri incarna con precisione il lato più ambiguo e complice del paese, mentre il giovane Matteo resta un enigma: fragile e tenero, ma al tempo stesso strumento di un potere che inquieta. Intorno a loro, un coro di adulti che completa la tela della comunità con la stessa complicità che rende tutto possibile.
La regia lavora per contrasti: i campi lunghi delle montagne respirano libertà, ma i primi piani mordono la pelle. Ogni scelta visiva serve a trasformare l’abbraccio in minaccia. Non c’è bisogno di mostri digitali: il vero orrore sta nella nostra incapacità di accettare il dolore, e nella facilità con cui cediamo al miraggio di cancellarlo.
Certo, qualche limite c’è: la sceneggiatura a tratti si sente in dovere di spiegare più del necessario, rallentando la tensione; e alcuni personaggi secondari rimangono abbozzati, pedine utili alla trama ma poco sviluppate. Ma resta la sensazione di un film che ha coraggio, che non teme di guardare il lutto e l’ipocrisia di una comunità per trasformarli in materia di cinema.
E se davvero l’horror italiano è tornato, è perché ha trovato la voce per raccontare non solo i mostri esterni, ma quelli che abitiamo. La valle dei sorrisi lo conferma: più vivo che mai.