VENEZIA – Di sicuro è un piccolo fenomeno mediatico. Dichiara 20mila 429 followers sul suo profilo Facebook, è ospite ciclico della trasmissione “La zanzara” di Cruciani e Parenzo, organizza visite guidate sui luoghi delle sue malefatte e insomma ormai Giampaolo Manca è quasi più famoso di Felice Maniero. Del resto il “Doge” si è sempre dichiarato “esponente di spicco della mala del Brenta” capeggiata da Felix. Peccato che si sia inventato tutto. O, meglio, i fatti che racconta sono veri, ma lui, dicono quelli che i fatti conoscono per averli vissuti in prima persona, non c’entra proprio nulla. Eppure in tanti gli credono e si abbeverano alle sue storie, convinti che lui sul serio sia stato un boss della malavita organizzata. Un boss che ha deciso di aprirsi ad una nuova vita – dice lui – ma intanto campa raccontando la vecchia vita. Che poi non è nemmeno la sua. «Non era nessuno», dice il vero boss, Felice Maniero, il quale anche l’altro giorno, intervistato da Fedez per Pulp Podcast (in onda lunedì prossimo), ha ribadito, sornione: «Giampaolo Manca chi? È la prima volta che ne sento parlare». E se Manca gli propone ufficialmente uno scontro in diretta radio, il boss semplicemente nemmeno risponde: «Non mi confronto con le scartine».

APPROFONDIMENTI


GEMELLI

Ma come fa Giampaolo Manca a raccontare per filo e per segno i clamorosi furti? Alla Guggenheim, ad esempio? Semplice, glieli ha raccontati il fratello gemello Fabio. Che non fa nemmeno lui parte dell’aristocrazia criminale veneziana, ma è qualche scalino, anzi qualche pianerottolo più in alto di Giampaolo visto che, ad esempio, ha partecipato al famoso furto del Fontegheto della farina di Canaletto messo a segno dalla batteria di Vincenzo Pipino, il “re” dei ladri veneziani. Pipino lo ha portato anche alla Guggenheim, per ben due volte e in mille altri palazzi, tanto per alleggerire dal peso dei quadri antichi e preziosi, tutte le nobili famiglie lagunari. Ecco perché Giampaolo Manca può descrivere nel dettaglio questi grandi furti: lui non c’era, ma suo fratello sì. Ma siccome invenzione chiama invenzione, ecco il soprannome importante: «Mi chiamavano il “Doge”», dice. Be’, il nome l’ha preso pari pari dal film su Maniero con Elio Germano come protagonista. Uno dei banditi infatti è proprio soprannominato il Doge e, dicono, Manca ha pensato che era un bel soprannome e che gli stava a pennello. Comunque molto meglio di “naso”, il suo vero soprannome, per via di un profilo decisamente accentuato.

VIVO PER MIRACOLO

E pensare che non solo Manca non ha mai fatto parte della banda, ma sarebbe anche vivo per miracolo, anzi, per Maniero. «Sapeva che stavamo cercando i Rizzi per ammazzarli e siccome circolava la voce che fosse un informatore dei carabinieri, quella sera abbiamo chiamato anche lui sulle rive del Brenta. Ma era l’unico di noi che non era armato e sai perché? Perché lo dovevamo ammazzare. Era la quarta vittima di quell’agguato ai fratelli Rizzi e Padovan. Ho fermato io Pattarello che gli stava già puntando la pistola. “Basta, fermo.” ho detto. Del resto, se ci avesse denunciati sarebbe finito all’ergastolo anche lui visto che era presente, no? E infatti si è preso una caterva di anni di galera».

Uscito dal carcere Manca si è dato ai social inventandosi una carriera criminale mentre alle cronache ha consegnato solo un paio di rapine importanti, una andata molto bene alle Poste di Mestre (700 milioni di lire) e una fallita miseramente all’Hotel Excelsior del Lido. Per il resto, affermano sempre i i detrattori del sedicente Doge, è stato solo un ladro occasionale e uno spacciatore di quartiere. E questo suo inventarsi scrittore e influencer, raccontano, sta facendo ridere sia chi è dentro il carcere sia chi è fuori e ricorda le imprese di “naso”, che si arrabattava a tirare la fine del mese facendo finta di essere miliardario e spacciandosi prima per grande amico di Kociss, al secolo Silvano Maistrello, e poi del boss Felice Maniero. Non gli è andata mai molto bene, fino ad un paio di anni fa, mentre adesso gli sta andando benissimo grazie alle sue storie di una malavita che fa finta di condannare e invece celebra creando ammirazione per le gesta criminali di una banda che, assicura chi ne faceva davvero parte, non lo avrebbe mai preso in considerazione, nemmeno per caricare le pistole.