La prima volta che Francesca Sgorbini ha giocato a rugby aveva 8 anni. «Andavo al mare in una spiaggia denominata la “Spiaggia dei rugbisti”, vedevo tutti giocare con questa palla ovale e mi ha subito affascinato, tant’è che un giorno ho chiesto il numero a una persona che sapevo essere un l’allenatore e l’ho dato a mia mamma dicendole “Mamma a me piacerebbe fare rugby”». Ha dovuto vincere qualche resistenza, sua madre era titubante all’idea di far fare a sua figlia uno sport ancora poco noto, soprattutto come sport femminile. «Prima facevo pallavolo e ginnastica ritmica sport un po’ più conosciuti», spiega Sorbini, «ma poi si è convinta. Al primo allenamento mi ricordo che diluviava, avevo un k-way bianco, ci siamo allenati nel fango. Finito l’allenamento mia madre viene verso di me e mi chiede “Ti è piaciuto?”. Io le ho risposto “Mamma è stata la cosa più bella del mondo”».
È un colpo di fulmine, un imprinting. Lo stesso che ricorda Silvia Turani dopo il primo allenamento: «Ho questo vivo ricordo di essere tornata a casa e di essere stata al settimo cielo». Lei ha iniziato a giocare più tardi, a 21 anni: «Ero in Erasmus in Spagna, a Cordoba. Sono stata a una festa di compleanno e alcune ragazze hanno detto alla festeggiata “Il nostro regalo per te è non essere andate ad allenamento questa sera”. Ho chiesto che sport facessero e mi hanno risposto: rugby». Sgorbini, 24 anni, e Turani, 30, oggi sono entrambe nella nazionale italiana guidata da Fabio Roselli, che ha appena giocato ai Mondiali in Inghilterra.
Rugby femminile
Quanto spesso sentiamo nominare il rugby femminile? Molto poco in un Paese come l’Italia dove il rugby è meno popolare rispetto ad altri sport. Quando poi si tratta di campionati femminili, subentrano notevoli pregiudizi, l’idea ancora radicata che esistano sport “da maschi” e che le atlete siano automaticamente meno performanti. In realtà le azzurre del rugby, pur essendo state eliminate piuttosto rapidamente alla Coppa del Mondo, erano arrivate al campionato con buone speranze, in sesta posizione nel ranking mondiale e dopo aver raggiunto i quarti di finale alla World Cup del 2022, un risultato migliore rispetto alla nazionale maschile. Qualcosa, dunque, si sta muovendo e per la prima volta la finale del campionato di Serie A élite Femminile (Villorba – Valsugana) è andata in onda in chiaro sulla Rai.
«Come visibilità in Italia abbiamo ancora tanto margine di miglioramento», osserva Sgorbini, «Faccio il paragone con la Francia (Francesca gioca nel Clermont, nda): qui il rugby è sport nazionale e grazie al mondiale hanno avuto il 38% in più di tesseramenti, dalle under fino alle seniores. In Italia stiamo cercando di dare sempre più visibilità al rugby e alla sua cultura, penso che debba partire un po’ da noi giocatrici con il supporto della Federazione, un lavoro sinergico per trovare spazi e coinvolgere le future generazioni». È d’accordo anche Silvia Turani: «In Italia c’è ancora da fare», «la strada è quella di continuare ad investire con un progetto strutturato che coinvolga i club, dalle giovanili alle nazionali». «Gli sponsor giocano un ruolo fondamentale, per attirarli bisogna aprirsi anche al mondo fuori dal rugby iniziando a parlare a mondi diversi», aggiunge, «Sono certa che ci sono aziende che hanno la voglia e la volontà di investire in un progetto così ambizioso. Bisogna far sapere loro che esistiamo».
Rugbiste d’eccellenza
Sgorbini e Turani sono tra le 25 rugbiste attualmente sotto contratto da parte della Federazione italiana Rugby. Le ragazze giocano insieme ai coetanei maschi fino ai 12 anni, poi dall’under 14 si apre il percorso femminile, oggi molte di loro sono state chiamate a giocare all’estero per le loro capacità, dal 2022 la Federazione ha stanziato dei fondi per contrattualizzarle e stipendiarle, ma spesso le atlete portano avanti in parallelo anche lo studio o il lavoro. Turani, ad esempio, ha due lauree e oggi si dedica full time al rugby giocando in Inghilterra con Harlequins. Sgorbini, invece, vive e gioca in Francia: «Mi sveglio presto e la mattina la dedico allo studio perché sto facendo l’università di Psicologia all’UniMarconi con una borsa di studio messa a disposizione dalla Federazione Italiana Rugby. Alle 11.30 ci si inizia ad allenare con una sessione dedicata alle skills, poi palestra, poi torniamo a casa per pranzo. Il pomeriggio dopo il riposo riprendo a studiare e la sera abbiamo allenamento dalle 18 fino alle 20. Poi cena e a letto». Durante l’ultimo Sei Nazioni, due ragazze si sono laureate in Marketing e in Economia e anche per questo la Federazione ha avviato un programma per assistere i giocatori e le giocatrici dell’alto livello in un percorso di tutoraggio per l’accompagnamento agli studi o l’inserimento nel mondo del lavoro.
Il rugby mi ha dato la possibilità di cambiare la mia vita
In questo modo il rugby diventa per le ragazze un trampolino di lancio nella loro crescita non solo sportiva, ma anche personale. «Il rugby mi ha dato la possibilità di cambiare la mia vita, di viaggiare per il mondo, di conoscere tantissime persone e di potermi esprimere», racconta Turani, «Non conosco solo giocatori o giocatrici ma anche chi lavora dietro le quinte che possono essere persone nella comunicazione o persone che lavorano nell’ambito fisiosanitario. Mi piace prendere qualcosa da ognuna di queste persone e ispirarmi a loro».
Per questo la visibilità è importante, non solo dal punto di vista degli investimenti e quindi della sostenibilità economica della vita da giocatrici, ma anche per abbattere gli stereotipi e far conoscere questo sport a un numero sempre maggiore di ragazze, come tifose o future giocatrici. Secondo le Nazioni Unite, «Le ragazze che praticano sport sviluppano autostima, fiducia, resilienza e imparano a lavorare in squadra. Tendono a rimanere a scuola più a lungo, a ritardare la gravidanza e a trovare lavori migliori». Eppure, secondo un’indagine di AstraRicerche per Dove, una ragazza su due abbandona l’attività sportiva tra i 13 e i 17 anni e ben 2 su 3 lo fanno per mancanza di fiducia nel proprio corpo. «I pregiudizi purtroppo ci sono e ci saranno, come in tutti gli sport considerati da “maschi”», osserva Francesca Sgorbini, «Penso invece che il rugby sia uno sport bellissimo, uno sport in grado di aiutare tantissime bambine soprattutto per i valori che abbiamo e che appartengono a questa disciplina sportiva. Se le persone iniziano veramente a conoscere il rugby, e in particolare il rugby femminile, si renderanno conto che sono degli ambienti belli e sani che ti possono aiutare nella vita di tutti i giorni grazie a ciò che impariamo in campo».
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