Il 12 luglio scorso a Tampa, in Florida, l’ospite più atteso e ascoltato era lui, Tucker Carlson, l’ex conduttore di Fox News, la stella più luminosa del firmamento MAGA. Simbolo dei duri e puri, Carlson è sul palco dello Student Action Summit organizzato da Turning Point Usa, l’associazione fondata da Charlie Kirk, il propagandista trumpiano ucciso dieci giorni fa in Utah. Davanti a due segretari dell’amministrazione Trump, Pete Hegseth e Kristi Noem, a Donald Trump Jr e a volti noti della galassia trumpiana, Carlson dice di essere “non soddisfatto” delle rivelazioni del governo sul caso Epstein. Una critica che svela una delle linee di frattura del mondo MAGA, già messe in evidenza nelle settimane precedenti dall’ideologo dell’alt-right americana Steve Bannon e dal miliardario Elon Musk. Una divisione interna che si riverbera su altri dossier, dalla politica estera al free speech.
Ricostruire una cronistoria del sobollire del mondo MAGA è affare complesso. Le correnti trumpiane sono fluide, per intercettare tendenze e protagonisti bisogna setacciare blog, social, podcast. Anche le conseguenze dell’omicidio di Kirk frazionano il popolo che ha riportato al comando il presidente Trump. La Casa Bianca ha annunciato una guerra totale al “terrorismo radicale” e il vicepresidente JD Vance ha chiesto agli americani di “segnalare” chi ha festeggiato per la morte di Kirk. Una spirale di denunce anonime e di ritorsioni è esplosa, prendendo di mira i network televisivi americani.
La prima grande star a cadere è Jimmy Kimmel. Il comico aveva accusato il movimento MAGA di sfruttare l’omicidio di Kirk ed è stato sospeso “a tempo indeterminato” da ABC, di proprietà Disney, dopo che Brendan Carr, capo della Federal Communications Commission (Fcc), aveva minacciato di volerlo rimuovere “nel modo più semplice o in quello più difficile”. Trump ha chiesto la testa di altri conduttori, da Jimmy Fallon a Seth Meyers, in un perfetto caso di applicazione dall’alto (e da destra) della cancel culture. L’estromissione di figure ritenute scomode o non allineate è sempre stata criticata dai repubblicani, che all’insegna della libertà di espressione hanno combattuto i democratici. La giravolta trumpiana ha messo di nuovo in crisi il mondo MAGA.
La spaccatura più evidente è arrivata dopo le parole di Pam Bondi, trumpianissima procuratrice generale, che ha condannato l’hate speech e posto dei paletti al primo emendamento (la libertà di espressione), almeno a vederla con i Maga più radicali. A infuocare il dibattito è stato proprio Carlson: “L’hate speech non esiste”, ha arringato il giornalista, sostenendo che l’amministrazione Trump di usare l’omicidio di Kirk per calpestare il libero pensiero, intenso in senso MAGA, ovvero la libertà di esprimere anche i concetti più estremi e osceni per l’opinione pubblica. Anche diversi repubblicani, come Brett Guthrie, che presiede la commissione che sovrintende alla Fcc, hanno chiesto “cautela” nel prendere provvedimenti contro “chi non è d’accordo con noi”.
Pur senza un seggio, Tucker ha un peso politico enorme: è il più noto alfiere dei die hard trumpiani. Veicola i loro messaggi, anche quelli critici sul presidente. Non è la prima volta che l’ex Fox News va contro Trump. È stato protagonista dello scontro tra i trumpiani dell’origine e i NeoCon, i neoconservatori egemoni nel partito per lustri e che hanno visto l’apice della loro influenza negli anni di George Bush Jr, e che sono ormai piegati al verbo di The Donald.
Al centro c’è l’approccio americano alla politica estera. La maggioranza degli elettori del presidente l’ha riportato a Pennsylvania Avenue per far sfilare gli Stati Uniti dagli scenari di crisi internazionali, percepiti come lontanissimi e estranei agli interessi dell’America First. Trump ha rappresentato per molti l’incarnazione dello spirito isolazionista, come spiegato a Huffpost da Rod Dreher, politologo vicinissimo a Vance: “Molte persone l’hanno scelto perché non ci porterà in un’altra stupida guerra”. Le mosse del tycoon sullo scacchiere internazionale non hanno rispettato le aspettative, il corteggiamento nei confronti di Vladimir Putin è stato inutile e la guerra è ancora in corso.
È piuttosto condivisa l’ostilità MAGA alla causa ucraina. Il più fulgido esempio del disinteresse americano rispetto al supporto militare di Kiev è Vance, interprete di quell’America disillusa dopo l’invasione americana dell’Iraq. Poco cambia spostandoci in Medio Oriente. Lo stesso Kirk, oggi ricordato come strenuo sostenitore della destra messianica israeliana, ha criticato al cieco sostegno dell’amministrazione Trump a Benjamin Netanyahu. Durissime posizioni contro le scelte politiche del governo di Israele sono state espresse dalla nota influencer complottista Candace Owens, amica personale di Kirk ed esponente dell’alt-right.
L’isolazionismo americano è difeso dai giovani trumpiani. Ed è esternato, nella maniera più netta, proprio da Carlson che, poco prima del bombardamento americano ai siti nucleari iraniani in supporto a Israele, ha messo in croce Ted Cruz. Il senatore del Texas, convertitosi al trumpismo, è un falco repubblicano e il 18 giugno scorso è stato intervistato, o meglio messo alla berlina, da Carlson in un video cliccatissimo sui social.
Per scongiurare l’intervento americano si era mossa anche Marjorie Taylor-Greene, rappresentante della Georgia sostenitrice di molte delle tesi cospirazioniste di QAnon, nonché la prima repubblicana ad accusare Israele di “genocidio”: “Quelli che stanno sbavando per un coinvolgimento completo degli Stati Uniti nella guerra Israele/Iran non sono davvero America First/MAGA”, aveva postato su X. “Un attacco diretto all’Iran dividerebbe in modo disastroso la coalizione di Trump”, le aveva fatto eco il podcaster di estrema destra Jack Posobiec su X, temendo un boomerang elettorale. Lo stesso Kirk aveva avvertito che “nessuna questione divide attualmente la destra quanto la politica estera”, preannunciando “un enorme scisma tra i MAGA” in caso di intervento. L’isolazionismo è uno dei pilastri del trumpismo. Nel 2016, come nel 2025. Steve Bannon, il guru del primo mandato, l’ha teorizzato a lungo e spinge ancora in quella direzione. Il disimpegno americano dagli scenari bellici e dalle aree di crisi è stato contraddetto da Trump.
Un’altra grande promessa elettorale di Trump per blandire il suo elettorato più estremista era la desecretazione delle carte sul caso Epstein. I MAGA, imbevuti di teorie complottistiche alimentate dal loro candidato, hanno sempre accusato i democratici di aver coperto i file sul finanziere newyorkese, suicidatosi in carcere nel 2019 dopo accuse e condanne per traffico sessuale e pedofilia. Il disvelamento dei protagonisti del sistema Epstein doveva essere in cima all’agenda, ma la doccia fredda è arrivata con il primo plico, reso pubblico ma assente di grandi scoop.
Alle lamentele ha risposto proprio Trump, difendendo l’operato di Bondi e mettendosi contro anche membri dell’amministrazione, come il vice-direttore dell’Fbi, il complottista Dan Bongino. “Abbiamo un’amministrazione perfetta e degli egoisti stanno cercando di minarla, tutto per un tizio che non muore mai, Jeffrey Epstein”, ha detto Trump, escludendo nuove rivelazioni. Un dietrofront che ha fatto infuriare la base. Un’insoddisfazione incarnata da vari esponenti MAGA come lo youtuber conservatore Brandon Tatum, il cospirazionista Alex Jones, il podcaster Posobiec e, appunto, Carlson. “Il fatto che il governo per cui ho votato si sia rifiutato di prendere sul serio la mia domanda e abbia invece detto ‘caso chiuso, zittite i teorici della cospirazione’, è troppo per me. Non credo che il resto di noi debba esserne soddisfatto”, ha detto a Tampa il giornalista.
Una valanga, che rischiava di buttar giù tutta l’impalcatura trumpiana, irrobustita dallo scenografico addio di Musk. L’uomo più ricco del mondo – che aveva già abbandonato il DOGE (Dipartimento per l’efficentamento finanziario) – all’apice del suo scontro pubblico con Trump, aveva twittato rabbiosamente che lo stesso presidente è “negli Epstein files”.
La “mancata verità” sulla raccolta di documenti giudiziari, agende e registrazioni legate a Epstein è la più grande frattura nel mondo MAGA. Il litigio Trump-Musk ha però radici profondamente economiche. Il patron di Tesla ha espresso una linea opposta a quella del presidente sul Big Beautiful Bill, il maxi disegno di legge fiscale che taglia le tasse e aumenta il debito pubblico, e sui dazi. Per Musk bisognava arrivare “a dazi zero” con l’Europa. Il balletto sulle tariffe messo in scena da Trump ha spazientito la base MAGA.
Lo dimostrano i sondaggi. Ad aprile scorso, appena il 39% degli americani giudicava positivamente l’operato di Trump, secondo un sondaggio Washington Post, Abc, Ipsos. Non si era mai visto un presidente con un tasso di approvazione così basso dopo i primi cento giorni di governo. A 242 giorni di mandato, scrive l’Economist, quel 39% è confermato. Il tasso di approvazione netto del presidente segna -17%, ma su specifici dossier, come quello economico e dell’occupazione, è sceso di 30 punti e sulla lotta all’inflazione di quasi 40.
Un’indicazione preoccupante, ben nota a Washington. Secondo YouGov, gli elettori di Trump continuano ad approvare in larga parte l’operato presidenziale, ma l’insoddisfazione è diffusa. Anche negli Stati che hanno sancito la sua vittoria solo pochi mesi fa: dal Michigan al Nevada, è in calo in tutti gli Swing States. Una spia, in vista delle elezioni di midterm, che si aggiunge agli addii eccellenti e alle tante ferite del mondo MAGA.