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Luigi Bisignani

21 settembre 2025

Due poteri, una sfida comune. Meloni e Prevost tra guerre e genocidi portano sulle spalle il medesimo fardello: la giustizia. Per la premier si chiama referendum, per il Papa si chiama processo Becciu, il cui appello si apre domani.
Il primo vero banco di prova di Leone XIV non è teologico né geopolitico, ma giudiziario. Dal verdetto sull’affaire Becciu dipenderà la possibilità per la Curia di ritrovare credibilità, ruolo e pace. Sorprendentemente, nei giorni scorsi, il Pontefice ha ricevuto monsignor Alejandro Arellano Cedillo, decano della Rota e presidente del collegio d’appello, e qualche giorno prima anche Venerando Marano, successore di Giuseppe Pignatone.

Il 18 settembre per di più lo ha accolto nella nuova Aula del Tribunale Vaticano, ricavata nell’antica Aula del Sinodo, insieme al promotore di giustizia, Alessandro Diddi, avvocato di grido a Roma e super procuratore in Vaticano. L’aula è nel Palazzo Apostolico, nella residenza papale, location che ha molti è sembrato un brutto segno: è lo stesso luogo dove nella metà del 1500 Papa Paolo IV Carafa faceva giudicare cardinali e vescovi prima di mandarli in carcere a Castel Sant’Angelo.

Sessant’anni fa, San Paolo VI vi aveva riunito il primo Sinodo dei vescovi, luogo di fraternità e non di condanne.
Oltretevere, in molti leggono in questi incontri un sigillo papale preventivo sul processo: sarà giustizialista come Bergoglio o garantista come Wojtyla?

La questione va ben oltre la sorte di un cardinale. Da canonista, Prevost sa che è in gioco la credibilità stessa della giustizia vaticana.La sentenza di primo grado non è stata una vittoria della verità, ma un colpo alla reputazione della Santa Sede. Prove zoppicanti, chat imbarazzanti, testimoni eterodiretti, strani rapporti tra inquirenti e «signore», indagini della Gendarmeria manipolate: più un processo politico che un’aula di diritto. Lo stesso Vittorio Feltri si domandava dove fossero i giuristi cattolici mentre tutto questo pasticcio prendeva forma. Quel silenzio collettivo ha trasformato il caso vaticano in uno scandalo planetario.

E l’ombra di Francesco incombe ancora. Due documenti a lui attribuiti hanno pesato sulla prima sentenza: il primo, anteriore al verdetto, evidenziava un pregiudizio evidente; il secondo, firmato in ospedale con una sola «F» priva del consueto punto di Bergoglio, ha il fumus di un apocrifo forse redatto da quei pochissimi che avevano accesso alla stanza del Pontefice al decimo piano del Policlinico Gemelli. Carte mai condivise né con i cardinali né con l’imputato, ma sventolate dal Camerlengo, il cardinale irlandese Kevin Joseph Farrell come prove decisive.

Il nodo, oggi, è politico e giudiziario insieme: in appello, a sostenere l’accusa sarà ancora Diddi, come in primo grado e che si avvale come consulenti di professionisti italiani, tra cui un magistrato in carica, di sua fiducia. Una continuità che sotto ogni cielo e in ogni ordinamento la scienza giuridica ritiene inammissibile: l’accusatore che resta accusatore, senza filtro. In Vaticano è stato possibile grazie ad un motu proprio di Francesco che ha ridotto drasticamente, annullandole, le garanzie difensive.

Diddi ha agito con poteri eccezionali, mai pubblicati sugli Acta Apostolicae Sedis, costruiti ad hoc per il «processo Becciu»: intercettazioni à gogo, arresti lampo, prove a discarico e documenti secretati. Più diritto d’emergenza che ordinamento stabile. Tutto giustificato da un principio assoluto: Prima sede a nemini iudicatur. Il Papa decide, gli altri si adeguano. Ma fino a quando questa logica potrà convivere con il principio di un giusto processo?

In questa cornice la Gendarmeria, rappresentata in Aula da Gianluca De Santis, ha fatto il resto. Non è la prima volta che la polizia interna appare più organo complottista che mezzo inquirente a garanzia della veritas rerum, la verità dei fatti. E non deve sorprendere che, alla vigilia del Conclave, la Curia fosse attraversata da tensioni. Leone XIV non potrà eludere la questione, soprattutto dopo che diversi cardinali l’hanno sollevata a voce alta.

Se davvero si vuole recuperare credibilità, una strada appare obbligata: lasciare piena autonomia alla Corte d’Appello e togliere dal tavolo l’ombra di un procuratore già troppo coinvolto.

Non è escluso che lo stesso Diddi, da giurista esperto, preoccupato anche per un procedimento Onu in corso che lo potrebbe coinvolgere, opti per un’uscita di scena clamorosa sul modello Antonio Di Pietro, quando depose la toga a Milano.

Del resto, già oggi molte tesi del primo grado appaiono fragili: un peculato senza pecunia, accuse al finanziere Raffaele Mincione fondate su norme canoniche inapplicabili ad un laico, mentre i grandi istituti bancari – Credit Suisse in testa restavano fuori campo così come Monsignor Alberto Perlasca capo dell’Ufficio amministrativo della Segreteria di Stato, cioè il settore che gestiva le ingenti risorse finanziarie della Santa Sede al centro di un vero feuilleton tra accuse e ritrattazioni. Non a caso la giustizia inglese ha dato ragione al finanziere della City, obbligando il Vaticano a risarcimenti milionari.

Alcuni cardinali sussurrano al Papa, più propenso ad ascoltare enigmatico piuttosto che dialogare con i suoi interlocutori, di ripristinare la tradizione con un ritorno alla regola «intra muros Ecclesiae»: un porporato deve rispondere solo al Collegio dei Cardinali.

Affidare il giudizio a laici ha prodotto più fragilità che certezze. In tempi in cui la Chiesa rischia di essere giudicata con categorie temporali, restituire questa prerogativa ai principi della Chiesa non sarebbe un atto di nostalgia, ma una riaffermazione di coerenza istituzionale: è la Santa Sede e non lo Stato della Città del Vaticano ad essere riconosciuta nell’Ordinamento Internazionale. Chi riceve la porpora deve rispondere ai suoi pari, non a commissioni improvvisate o a tribunali laici in balìa di lentezze, pressioni esterne, pregiudizi e interessi per nulla ecclesiali. Il tentativo di delegare ai laici il discernimento ultimo su figure di governo ecclesiale non ha rafforzato l’istituzione: al contrario, ha creato fragilità, aperto varchi di interferenza, moltiplicato sospetti.

Domani, dunque, non sarà una semplice udienza, ma il momento in cui questo pontificato traccerà la propria linea. O Leone XIV sarà Papa del diritto o resterà prigioniero dell’eco di Bergoglio. Da parte sua, Meloni, con la sua riforma sulla giustizia, la sua strada l’ha già scelta. Alea iacta est.