Trent’anni di Seven, di un thriller che si è fissato nell’immaginario collettivo con una forza che nessuno, quel 22 settembre del 1995, poteva prevedere. David Fincher sorprende tutti, costruisce un complesso labirinto, una caccia all’uomo superba dalla complessa semantica e con un finale che ha fatto la storia del cinema.

Una caccia all’uomo in una città da incubo

Sarebbe fin troppo facile dire che Seven di David Fincher è un film che ha cambiato tutto. La verità è che a trent’anni di distanza, questo thriller, diventato un mito trasversale, rimane un caso a parte, un unicorno cinematografico, che nella forma in cui è uscì in sala, non sarebbe neppure dovuto esistere. David Fincher era reduce dal suo debutto alla regia, con il terzo, terribile episodio della saga di Alien. Viene scelto infine, tra un certo scetticismo della produzione, per dirigere questo strano thriller, con una sceneggiatura di Andrew Kevin Walker che passa di mano in mano. Fondamentale sarà l’onda del successo di diverse pellicole inerenti ai serial killer, su tutti Il silenzio degli innocenti, che permetteranno al progetto di vedere la luce. Walker l’aveva concepito a metà anni ‘80, mentre lavorava in una casa discografica, traendo ispirazione dalla terribile esperienza che per lui rappresentò la Grande Mela, all’epoca in un gorgo di criminalità e traffico di droga allucinanti.

Dentro, ci mette tutto il suo amore per il cinema di exploitation, approfondisce il tema della città come giungla infida e senza pietà. David Fincher carpisce ogni potenzialità di quel racconto oscuro, opprimente, girato a Los Angeles, resa però invisibile e in realtà più simile a New York dalla bravura di Fincher, dalla sua volontà di celebrarne la simbologia di labirinto. Qui facciamo al conoscenza del Detective David Mills (Brad Pitt) e del suo anziano collega William Somerset (un grande Morgan Freeman). Danno la caccia a un misterioso serial killer, che si presenta come un grande “fan” delle sacre scritture, almeno a giudicare da ciò che infligge le sue vittime. La prima è un uomo oscenamente obeso, che è stato costretto a nutrirsi fino alla morte, poi ne seguiranno altre, uccise nei modi più cruenti, tutti per legati ad un particolare: le scritte lasciate sul luogo del delitto, suggeriscono un collegamento con i sette vizi capitali. I due, si trovano però inizialmente a brancolare nel buio.

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Mills e Somerset cercano di unire i fili invisibili di una trama, che per il 90% del tempo, è in realtà una falsa pista, un inganno, squisito e terribile, con cui Seven si ritaglia uno spazio totalmente indipendente all’interno del genere. Seven omaggia profondamente le opere di John Milton, “la Divina Commedia” di Dante Alighieri, molti noteranno connessioni stilistiche con Poe, Ellroy, ci mostra il rapporto tra un vecchio mentore, un po’ cinico, che si lega da un giovane collega, pieno di buone intenzioni, animato dalla volontà di cambiare le cose e fare del bene. Assieme, navigano dentro questo inferno fatto di sangue, rebus, corpi martoriati e misteri. David Fincher sa che cosa vuole, sa come ottenerlo, lotterà duramente con la produzione, spalleggiato dal cast, Brad Pitt in particolare, per tenere il finale, geniale e terribile, distante da ogni happy end. Nelle mani di Fincher, Seven abbraccia un’atmosfera plumbea, opprimente, ma sempre elegante, costantemente sommersa dalla pioggia e soprattutto realistica.

Il serial killer era la nuova creatura di riferimento del cinema di quegli anni, era comparso sulle scene delle cronache sul finire degli anni ‘70, ma il cinema non aveva trovato una quadra fino a pochi anni prima. Anthony Hopkins ne aveva stabilito un supposto canone d’interpretazione con il suo Hannibal Lecter, poi però ecco che Fincher, proveniente dal mondo dei videoclip e degli spot commerciali, decide di virare verso il realistico. Con Seven, recupera molto del cinema di Don Siegel, soprattutto di William Friedkin, quella violenza urbana descritta come un habitat imbattibile. Tutto pare canonico in Seven, fino al momento in cui compare lui, John Doe, un Kevin Spacey glaciale e inquietante, coperto di sangue, e si comincia a delineare quel colpo di scena. Doe promette altri due cadaveri, e il film di sottecchi abbraccia la negazione totale dei topoi del genere, di ciò che il pubblico pensava di doversi aspettare ed è ciò che rende ancora oggi Seven assolutamente unico.

Un colpo di scena che ha fatto la storia (spoiler)

Normalmente in un film di questo tipo, il cattivo viene catturato, oppure ucciso, può essere anche una persona che già abbiamo incrociato durante il cammino e di cui non sospettavamo. Invece Doe, che si consegna e confessa, ci scopre spiazzati, sorpresi, in balia di un mostro che è sempre stato un passo avanti a loro, a noi, e che ha organizzato l’ultimo, macabro momento, con cui completare la sua missione. Qualcuno dirà che Seven è tutto in quel finale, anti-hollywoodiano, che più contropelo rispetto al mainstream non si potrebbe concepire. Ma anche per questo, ancora oggi, a trent’anni di distanza, lo amiamo così tanto. Quella scatola, quella scatola dentro cui c’è la testa di Gwyneth Paltrow, all’epoca fidanzata anche nella vita reale di Brad Pitt, quell’inutile lotta con cui Somerset cerca di convincere Mills a non uccidere l’assassino di sua moglie e del suo bambino non ancora nato, non è semplicemente uno dei migliori pezzi di scrittura degli anni ‘90, un mix di performance attoriali semplicemente spaziali.