Più che una visione del futuro, il cosiddetto piano della “Riviera Gaza” è un necrologio scritto nel linguaggio del lusso.
Confezionato in rendering patinati e pubblicizzato come un salto verso il progresso, in realtà è il culmine di anni di devastazione premeditata: un piano per cancellare i palestinesi di Gaza e presentare la loro assenza sotto il marchio dell’innovazione.
Quello che viene spacciato per un investimento e una rigenerazione è in realtà il riciclaggio di un genocidio in uno spettacolo, una copertura per abbellire un progetto politico fondato sulle macerie di Gaza e sul silenzio dei suoi abitanti cacciati via.
Nessun piano a parte la guerra
Il piano della “Riviera Gaza” per trasformare un’enclave completamente rasa al suolo in una serie di futuristiche megalopoli balneari tecnologiche è scritto nel linguaggio degli investimenti e della modernità, ed è già stato ampiamente criticato.
Ma guardando al di là delle immagini al computer e delle presentazioni per gli investitori si può mettere a fuoco una verità più cruda: questa non è una strategia diplomatica ma un’estetica della cancellazione. Appare chiaro allora perché da due anni non c’è un progetto politico coerente di Israele per Gaza, se non la distruzione di massa, lo sterminio e la carestia: perché il vero piano è sempre stato la cancellazione.
La coreografia politica delle ultime settimane tradisce le priorità di questo progetto. Mentre il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, suo genero Jared Kushner, l’ex premier britannico Tony Blair e gli inviati israeliani si riunivano a porte chiuse per immaginare il futuro della Striscia, senza un singolo palestinese nella stanza, il genocidio è andato avanti, cancellando quel che restava della densità urbana e del tessuto sociale di Gaza.
La conclusione è che la cancellazione non è un ostacolo al piano, è la sua premessa.
I lineamenti principali del piano della Riviera sono emersi in alcuni documenti rivelati di recente che descrivono le proposte per mettere Gaza sotto l’amministrazione fiduciaria degli Stati Uniti per circa dieci anni, svuotare completamente l’enclave degli abitanti palestinesi, e pubblicizzare la costa come un futuristico snodo turistico e tecnologico: la “Riviera del Medio Oriente”.
Nulla di tutto questo, però, è una novità. Il progetto originale di questo centro fantascientifico – costruito su fosse comuni e città rase al suolo – è stato creato dallo stesso Benjamin Netanyahu diversi mesi prima che Trump fosse eletto.
Il piano “Gaza 2035 Vision” del primo ministro israeliano, rivelato a maggio del 2024, immaginava l’enclave oggi sotto assedio come una zona industriale e di libero scambio in stile Dubai, e usava le stesse immagini generate dall’intelligenza artificiale che oggi sono usate nel piano della Riviera.
Non è una coincidenza che entrambi i piani abbiano una frase di apertura quasi identica: “Da una [Gaza] demolita a un fiorente alleato abramitico”, dice quella della Riviera, mentre il progetto di Netanyahu mette l’accento sul “ricostruire dal nulla”.
Le premesse sono due in ogni caso: Gaza deve essere totalmente rasa al suolo senza che rimanga nulla, e bisogna cacciare la popolazione per fare tabula rasa e ricostruire da zero.
Questo è stato il piano di Netanyahu fin dall’inizio, quando il primo giorno di guerra ordinò alla popolazione civile di Gaza di “andarsene immediatamente” prima che ci fosse “ovunque” una distruzione senza precedenti. Poi Netanyahu ha rincarato la dose quando il suo ministero dei servizi segreti ha preparato un piano dettagliato per l’espulsione di massa e il trasferimento forzato della popolazione palestinese.
Gli israeliani sono perfino riusciti a convincere l’allora segretario di stato statunitense Antony Blinken a visitare alcuni paesi arabi come l’Egitto e l’Arabia Saudita per promuovere l’idea di un “trasferimento temporaneo” della popolazione di Gaza nel Sinai. All’epoca la richiesta è stata ignorata e Israele non è riuscito a trovare una platea disposta a investire nel suo futuristico progetto per Gaza.
Netanyahu ha aspettato il momento opportuno, poi quando Trump è entrato in carica, è volato immediatamente a Washington per convincere il presidente statunitense a fare sua l’idea della pulizia etnica e della conquista di Gaza.
Da allora Netanyahu, per riferirsi al piano sistematico di espulsione di massa della popolazione di Gaza, continua a parlare di “attuazione del piano di Trump”, così scarica la colpa di questa politica genocida.
Numerosi esperti hanno ripetutamente stroncato il progetto della Riviera di Gaza come “folle”, irrealistico, impraticabile e pieno di ostacoli legali e morali tali per cui chiunque lo promuovesse diventerebbe complice di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Questo è il motivo per cui il Boston Consulting Group si è affrettato a sconfessare alcuni suoi importanti consulenti che avevano prodotto un piano dettagliato per rendere operativo il trasferimento di massa della popolazione a Gaza, con tanto di scenari simulati e grafici che includevano nel computo dei costi anche quello della pulizia etnica. Chiunque sostenga questo abominio si esporrebbe a denunce e processi penali per i prossimi decenni.
Ma la fantasia futuristica di Trump sul Mediterraneo in realtà potrebbe essere un progetto che non è pensato per essere serio. È semplicemente una storia con un “lieto fine” artificiale per il genocidio e la pulizia etnica, che Israele racconta ai suoi partner complici.
Per Netanyahu la vera utilità di questa idea stravagante sta nel controllo della narrazione. Mentre il governo israeliano porta avanti una campagna che ridisegna la geografia e la topografia di Gaza rendendola inabitabile (radendo al suolo quartieri, espellendo in massa centinaia di migliaia di persone verso campi di concentramento, bruciando case e facendo morire di fame bambini) le slide della Riviera forniscono un alibi proiettato al futuro.
A chi sta a destra di Netanyahu sussurrano il vecchio sogno del ritorno a Gaza degli insediamenti per soli ebrei; ai suoi alleati all’estero offrono ottimismo aperto agli investimenti. Alla base di Trump, vendono la suprema favola Maga: “Faremo fiorire il deserto, e sarà nostro”.
L’ostentazione dello sfarzo è tutto; il progetto che circola alla Casa Bianca è stato anche formalmente battezzato Great (dalle iniziali di “Gaza Reconstitution, Economic Acceleration, and Transformation”, “Ricostituzione, accelerazione economica e trasformazione di Gaza”). Per lo stile politico di Trump, la promessa di trasformare le rovine in resort turistici è un classico.
I paesaggi urbani luccicanti servono a vendere al mondo Maga e agli investitori un’immagine di Gaza come una tela bianca in attesa del genio venuto da fuori, mentre sul campo il genocidio procede senza sosta e senza ostacoli verso la sua fase finale.
In questo senso, la fantasia della Riviera non è una deviazione dagli ultimi vent’anni di politiche draconiane israeliane di assedio e massacri a Gaza, ma il loro coronamento.
È un gioco di parole per mascherare l’indifendibile; la distruzione diventa “preparazione del sito di cantiere”, lo sfollamento diventa “pianificazione urbana”, l’annientamento diventa un gradino verso profitti tutti da realizzare e opportunità commerciali.
È per questo che i rendering della Gaza Riviera sono un potente strumento di propaganda, per il modo in cui ribaltano la realtà. Propongono spiagge senza persone, edifici residenziali senza inquilini, porti senza politica. Fanno apparire l’assenza dei palestinesi come una forma di progresso.
È illogico pensare che Israele abbia profuso tutte le sue energie per compiere un genocidio a Gaza, abbia speso quasi 90 miliardi di dollari in questa guerra, abbia perso oltre 900 soldati, diventando uno stato paria, per poi alla fine servire Gaza su un piatto d’argento al governo statunitense e ai magnati americani della tecnologia e del settore immobiliare.
Yehuda Shaul, co-fondatore di Breaking the Silence, ha detto a The New Arab che secondo lui il progetto della Gaza Riviera “non è collegato all’obiettivo principale del movimento [israeliano] dei coloni”, che consiste nel fare pressioni per tornare a Gaza.
“Il piano originale delle organizzazioni dei coloni, che si adatta anche alla geografia basilare di Gaza, è tornare a quella che era soprannominata ‘la zona settentrionale’, costituita dai tre insediamenti nel nord di Gaza: Elein Sinai, Nisanit e Dugit”, aggiunge Yehuda.
“Questi sono gli insediamenti che si trovavano a nord di Beit Lahia. Su quest’area puntano gli occhi i coloni”.
Shaul spiega che i commentatori israeliani di destra come Amit Segal promuovono continuamente questa idea nei grandi mezzi di informazione. “Viene venduta come una ‘semplice’ espansione del perimetro [di Israele] invece che come un’annessione di parti significative della Striscia di Gaza”.
La promessa di grattacieli e porti turistici su una costa spopolata non è un progetto di pace, ma un teatro di spoliazione, una storia scritta per gli investitori stranieri, i comizi Maga e le fantasie dei coloni.
La “Riviera Gaza” non tende nella direzione di un domani di coesistenza e prosperità; ambisce a un ritorno al passato, alla più vecchia logica coloniale in cui le vite diventano ostacoli e l’eliminazione dell’altro un’opportunità.
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