La decisione di vaccinare un figlio o di sottoporsi a un vaccino in prima persona è spesso vissuta come una scelta intima e personale, che tocca le corde più profonde della libertà individuale e della tutela della propria salute. Tuttavia, nell’ordinamento italiano, questa scelta si inserisce in un quadro più ampio, quello della salute pubblica. La domanda su cosa preveda la legge in Italia in merito alla vaccinazione obbligatoria non trova una risposta univoca, ma si articola in un sistema complesso che cerca di bilanciare i diritti del singolo con gli interessi dell’intera comunità. La normativa, consolidata da numerose sentenze, si fonda sull’idea che la protezione offerta dal vaccino non è solo un beneficio per chi lo riceve, ma anche un atto di solidarietà verso gli altri, specialmente verso coloro che, per motivi di salute, non possono proteggersi. Questa guida esplora in dettaglio la legislazione vigente, analizzando le regole per i minori, le conseguenze per la frequenza scolastica e le implicazioni nel mondo del lavoro emerse durante l’emergenza sanitaria, per offrire un quadro chiaro e completo di obblighi e responsabilità.
Il fondamento della normativa italiana in materia di vaccinazioni obbligatorie poggia su un attento bilanciamento di interessi costituzionalmente rilevanti. Da un lato, viene tutelato il diritto alla salute del singolo, che include anche la libertà di scegliere le proprie cure. Dall’altro lato, viene affermato l’interesse superiore della collettività alla salute pubblica, un bene che trascende il singolo individuo. La Corte Costituzionale ha più volte confermato la legittimità di imporre trattamenti sanitari obbligatori quando questi servono a proteggere non solo la persona vaccinata, ma anche e soprattutto la comunità, con un’attenzione particolare ai soggetti più fragili e vulnerabili che non possono vaccinarsi. L’ordinamento distingue principalmente due filoni: la disciplina permanente per i minori, nota come “Legge Lorenzin”, e la normativa temporanea introdotta per gestire emergenze sanitarie, come quella da COVID-19.
Quali vaccini sono obbligatori per i bambini in Italia?
La questione dei vaccini obbligatori per i minori di età compresa tra zero e sedici anni è regolata dal Decreto-Legge n. 73 del 2017, la cosiddetta “Legge Lorenzin“. L’obiettivo dichiarato è quello di garantire la tutela della salute pubblica e di mantenere condizioni di sicurezza epidemiologica adeguate. L’obbligo si estende a tutti i minori in questa fascia d’età, inclusi i minori stranieri non accompagnati. La legge definisce dieci vaccinazioni come obbligatorie e gratuite, basandosi sulle indicazioni del Calendario Vaccinale Nazionale.
Queste vaccinazioni sono state suddivise in due categorie:
Vaccinazioni obbligatorie in via permanente
- anti-poliomielitica;
- anti-difterica;
- anti-tetanica;
- anti-epatite B;
- anti-pertosse;
- anti-Haemophilus influenzae tipo b.
Vaccinazioni obbligatorie fino a diversa valutazione
- anti-morbillo;
- anti-rosolia;
- anti-parotite;
- anti-varicella.
Per questo secondo gruppo, la legge stabilisce che il Ministro della Salute, ogni tre anni, possa decidere di far cessare l’obbligatorietà per una o più di esse, basandosi sull’analisi dei dati epidemiologici e sulle coperture vaccinali raggiunte a livello nazionale.
Un bimbo non vaccinato può andare all’asilo nido o materna?
L’accesso ai servizi educativi per la prima infanzia è uno dei punti più significativi della normativa sull’obbligo vaccinale. Per i minori nella fascia di età da 0 a 6 anni, la presentazione della documentazione che comprova l’avvenuta vaccinazione, o l’esonero per ragioni di salute, è un vero e proprio requisito di accesso agli asili nido e alle scuole dell’infanzia. Questo significa che, in assenza di tale documentazione, il bambino non può essere ammesso a frequentare la struttura.
Qualora i genitori non presentino i documenti richiesti, il dirigente scolastico emette un provvedimento di sospensione dalla frequenza. È importante sottolineare che, come chiarito dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, questa misura non ha una finalità punitiva nei confronti della famiglia. Si tratta, invece, di una misura protettiva autonoma, pensata per salvaguardare la salute dell’intera comunità scolastica, e in particolare dei bambini che non possono essere vaccinati per condizioni mediche preesistenti. Ignorare tale provvedimento di sospensione e portare comunque il figlio a scuola può avere conseguenze molto serie: questo comportamento può integrare il reato di “Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità”, previsto dall’articolo 650 del Codice Penale.
Cosa succede se un alunno non vaccinato va a scuola?
La situazione cambia radicalmente quando il minore entra nel ciclo della scuola dell’obbligo, ovvero dai 6 ai 16 anni. Per questa fascia d’età, l’obbligo vaccinale rimane in vigore, ma le conseguenze della sua inosservanza sono diverse e non incidono sul diritto all’istruzione. Un alunno non vaccinato non può essere escluso dalla frequenza della scuola primaria o secondaria.
Tuttavia, ciò non significa che l’inadempimento sia privo di conseguenze. Il dirigente scolastico, una volta accertata la mancata vaccinazione, ha il dovere di segnalare immediatamente la situazione all’Azienda Sanitaria Locale (ASL) di competenza. A questo punto, sarà l’ASL ad attivare le procedure previste dalla legge per contestare l’inadempimento ai genitori o ai tutori e avviare l’iter che può portare all’applicazione di una sanzione amministrativa.
Quali sono le multe per chi non vaccina i propri figli?
La questione delle sanzioni amministrative per l’inadempimento dell’obbligo vaccinale segue un percorso preciso, che non inizia immediatamente con una multa. L’approccio della legge è prima di tutto informativo e di sensibilizzazione. Quando l’ASL riceve la segnalazione di un minore non vaccinato, il primo passo è convocare i genitori o i tutori per un colloquio. Durante questo incontro, il personale sanitario fornisce tutte le informazioni necessarie sui vaccini, chiarisce eventuali dubbi e sollecita attivamente l’adempimento dell’obbligo.
Solamente se, nonostante il colloquio e l’invito a provvedere, la famiglia persiste nel non vaccinare il figlio, l’ASL procede a comminare una sanzione amministrativa pecuniaria. L’importo di questa multa può variare da un minimo di 100 euro a un massimo di 500 euro. È importante notare che la sanzione non viene applicata se, a seguito della contestazione formale, i genitori decidono di far somministrare il vaccino al minore entro i termini indicati dalla stessa ASL.
Cosa rischia un lavoratore che rifiuta il vaccino obbligatorio?
Durante l’emergenza pandemica da COVID-19, la legislazione italiana ha introdotto un obbligo vaccinale specifico per determinate categorie professionali, come il personale sanitario, il personale scolastico e le forze dell’ordine. In questo contesto, la vaccinazione è stata legalmente definita come un requisito essenziale per lo svolgimento delle prestazioni lavorative. Di conseguenza, il lavoratore che decideva di non adempiere a tale obbligo andava incontro a conseguenze dirette e immediate sul proprio rapporto di lavoro.
L’atto con cui l’autorità competente (ad esempio, l’ordine professionale o il datore di lavoro) accertava l’inadempimento dell’obbligo vaccinale comportava l’immediata sospensione dal diritto di svolgere l’attività lavorativa. Questa sospensione non era una misura disciplinare, ma una conseguenza automatica della mancanza di un requisito ritenuto fondamentale per la sicurezza sui luoghi di lavoro e per la tutela della salute pubblica.
Il lavoratore sospeso perché non vaccinato ha diritto a soldi?
La sospensione dal lavoro per inadempimento dell’obbligo vaccinale comportava anche la sospensione della retribuzione. Durante tutto il periodo di sospensione, al lavoratore non era dovuto lo stipendio, né alcun altro compenso o emolumento legato al rapporto di lavoro, pur mantenendo formalmente il posto. Una questione dibattuta in tribunale è stata se questi lavoratori avessero diritto almeno a un “assegno alimentare”, una somma minima per il sostentamento. La giurisprudenza ha costantemente negato tale diritto.
I giudici hanno chiarito che la situazione del lavoratore sospeso per mancata vaccinazione è diversa da altre forme di sospensione (ad esempio, per motivi disciplinari). In questo caso, l’impossibilità di lavorare non derivava da una decisione unilaterale del datore di lavoro, ma da una scelta legittima ma volontaria del lavoratore di non adempiere a un requisito di legge. Pertanto, i costi di questa scelta non potevano ricadere sul datore di lavoro. Inoltre, il datore di lavoro non aveva alcun obbligo di repêchage, cioè di ricollocare il lavoratore non vaccinato in altre mansioni. Tale obbligo di ricollocazione esisteva solo per quei dipendenti che, per comprovati motivi di salute, erano stati esonerati o avevano ottenuto un differimento della vaccinazione.