Nella notte tra il 9 e il 10 settembre una ventina di droni ha violato lo spazio aereo della Polonia – uno Stato membro della UE e della NATO. Alcuni di essi sono stati abbattuti, principalmente dai caccia F-35 dei Paesi Bassi intervenuti (al pari di un E-550A italiano decollato dalla base aerea di Ämari, in Estonia) per dare manforte alla Siły Powietrzne, l’aeronautica militare polacca. Nel voivodato di Lublino, area della Polonia sudorientale che confina con l’Ucraina e con la Bielorussia, la popolazione ha assistito con sgomento a una scena di guerra, con danni alle case e, soprattutto, tanta paura.
I droni erano dei Gerbera russi, UAV duttili e a basso costo che spesso fungono da esca per saturare le difese ucraine, equipaggiati in questo caso anche con schede SIM polacche e lituane, in modo da operare in modo più efficace in territorio UE. Non avevano contrassegni, ed erano disarmati. C’è chi ha ipotizzato che abbiano violato lo spazio aereo polacco per sbaglio (incluso lo stesso presidente statunitense Trump). Ma proprio la presenza delle SIM, è stato osservato da analisti militari, evidenzia la premeditazione dietro quella che il ministro della difesa Gudio Crosetto ha definito «la più grave violazione dello spazio aereo europeo dall’inizio della guerra: un attacco deliberato con oltre venti droni russi. Un atto inaccettabile […] con un duplice scopo: provocare e testare. Mosca sta volutamente alimentando un’escalation che nessuno vuole».
Il governo russo ha risposto alle accuse in modo ambiguo: ha dichiarato di non voler attaccare la Polonia, ha accusato Varsavia di diffondere «miti» per favorire l’escalation in Ucraina e ha avviato una vasta campagna di disinformazione attribuendo l’accaduto a un’operazione sotto falsa bandiera (false flag) architettata dagli ucraini.
Pochi giorni dopo si è verificata un’incursione (di un singolo drone russo) in Romania, quindi è toccato all’Estonia. Tre MiG-31 russi hanno violato lo spazio aereo del paese baltico, costringendo gli F-35 italiani a decollare dalla già citata base di Ämari. Per la quinta volta nel 2025 l’Estonia (un membro della UE e della NATO, un alleato dell’Italia al pari della Polonia) ha visto i suoi cieli violati.
Il ministro degli esteri estoni Margus Tsahkna ha sottolineato che «la Russia sta mettendo sempre più alla prova i confini, e sta divenendo sempre più aggressiva». Sempre Tsahkna, alla riunione del Consiglio di Sicurezza tenutasi il 22 settembre a New York, ha mostrato una fotografia dei MiG-31 di Mosca sottolineando che stavano «trasportando missili ed erano pronti al combattimento». Il ministero della difesa russa ovviamente ha negato tutto. Per Mosca (come per ogni regime totalitario o aspirante tale, insegna Hannah Arendt) non esistono fatti: la realtà è un intreccio di miti, fattoidi, storytelling e controverità manipolabile secondo le necessità contingenti; il passato è un palinsesto da raschiare e su cui riscrivere senza remore, alla bisogna.
È la Russia a provocare con le sue guerre neo-imperialiste il riarmo dell’Europa, o è l’Europa che con il riarmo provoca la Russia? Non importa che la Russia si riarmi da anni, non importa che sia stata la Russia ad aver aggredito la Georgia nel 2008, l’Ucraina nel 2014 e nel 2022. Droni russi in Polonia? No, sono droni ucraini abbattuti da Varsavia (in combutta con l’Ucraina). L’Ucraina uno Stato indipendente? No, è parte della Russia eterna. Timothy Snyder lo ha ricordato di recente sul Financial Times: Putin, in quanto «signore della guerra e dittatore», può «rendere il falso vero», eliminando la prova del contrario. Karl Popper, in Russia, farebbe una fine analoga a quella di Aleksej Naval’nyj.
Lo ha chiaramente spiegato pochissimi giorni fa, al quotidiano economico Puls Biznesu, il generale di brigata Jarosław Stróżyk, a capo del controspionaggio militare polacco (Służby Kontrwywiadu Wojskowego, SKW): è in corso un vero e proprio scontro informativo, e l’obiettivo di Mosca non è tanto persuadere, quanto depotenziare i fatti.
La situazione geopolitica in cui versa l’Europa è oggi paradossale. In Ucraina è in corso una guerra di inaudita ferocia, lanciata dal regime russo contro un popolo– quello ucraino – colpevole di voler appartenere all’Unione Europea, e non al Русский мир (mondo russo) o a una fantomatica comunità eurasiatica. Una guerra contro quella che Putin stesso ha definito in più occasioni una “nazione sorella”. E del resto si sa: “quando abbatti il bosco le schegge volano”, dice un proverbio russo.
C’è tuttavia un’altra guerra in corso, meno cinetica ma non per questo meno pericolosa: quella lanciata da Mosca all’UE e alle istituzioni democratiche europee. Una guerra Ibrida, elusiva e vaga, combattuta spesso da ignoti, e che usa l’eversione, il sabotaggio e la disinformazione al posto dei T-90M e dei MiG-31; gli attacchi cibernetici (e allo spettro elettromagnetico), la corruzione e le minacce invece di Kinžal e Iskander. È un’escalation ibrida che non arriva certo dal nulla, e che tra un paio di anni potrebbe trasformarsi (a certe condizioni) in una guerra tra Russia ed Europa.
Perché Mosca detesta l’Unione Europea
Il presunto jamming russo al GPS dell’aereo di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, ha destato scandalo in tutto il mondo. Ma è da tempo che l’UE e le istituzioni democratiche europee sono un obiettivo della Russia. A Mosca non sono mai piaciute le preoccupazioni europee per i diritti umani, la tutela delle minoranze, il rispetto della sovranità dei piccoli Stati (Stati deboli, quindi indegni di esistere, secondo la spaventosa Weltanschauung russa). Del resto le stragi di civili durante la seconda guerra cecena, l’aggressione alla Georgia nel 2008, la prima invasione dell’Ucraina nel 2014, gli omicidi e le incarcerazioni di giornalisti, politici e dissidenti russi come Anna Politkovskaja e Aleksej Naval’nyj (ma anche il celebre caso Mikheyev del 2006) mostrano che il Cremlino ha sempre avuto ben altre priorità e valori.
Tuttavia per anni le critiche di politici e parlamentari europei, così come le denunce di ONG, media e attivisti, non hanno impedito alle classi dirigenti europee di fare lauti affari con la Russia. Mosca poteva tollerare la dichiarazione dura di qualche europarlamentare nordico, o l’editoriale di fuoco su un quotidiano britannico o un settimanale francese. Rientrava tutto nel gioco delle parti, e di certo non scoraggiava gli oligarchi russi dal comprare case sontuose a Londra, Parigi o Forte dei Marmi, oppure di spedire i figli a studiare a Ginevra o Cambridge.
La cancelliera tedesca Angela Merkel e il primo ministro neerlandese Mark Rutte (oggi segretario della NATO) erano felici di partecipare alla cerimonia di inaugurazione del Nord Stream con Dmitrij Medvedev, allora presidente russo diventato negli ultimi anni tonitruante megafono del regime (anche per motivi di incolumità personale). Le élite europee e russe fraternizzavano, ex esponenti di spicco di importanti governi dell’eurozona accoglievano con disinvoltura gli inviti russi a essere membri (ben remunerati) di questo o quel board di società statali o parastatali russe.
Gli aeroporti europei, di recente paralizzati da attacchi cibernetici o droni, erano gremiti di ricchi turisti russi ansiosi di mangiar bene e fare shopping nei centri storici di Parigi, Milano, Roma o Vienna.
Il crescente degrado morale e politico in cui scivolava la Russia non interessava quasi a nessuno. Come notava già nel 2007 un articolo de La Stampa (un esempio tra i tanti) mentre il Comitato del Consiglio d’Europa contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti denunciava pubblicamente il ricorso alla tortura, alle detenzioni illegali e così via in Cecenia, «[i] leader delle democrazie europee affronta[va]no sempre più timidamente l’argomento con Putin».
Il legame tra la “nuova Russia” e la UE aveva una natura eminentemente commerciale e finanziaria. Le economie europee si impegnavano a comprare immense quantità di energia e materie prime dalla Russia; in cambio i russi acquistavano vini e profumi francesi, auto di lusso tedesche, scarpe, borse e yacht italiani. E dove finivano gli enormi guadagni della classe dirigente di uno dei paesi più corrotti del pianeta? Una parte nelle banche e nelle finanziarie europee, oltre che in speculazioni edilizie e grandi progetti immobiliari in tutto il continente. Pecunia russica non olebat.
Nel 2013 veniva pubblicata una roadmap per la EU-Russia Energy Cooperation until 2050 (cooperazione energetica tra UE e Russia sino al 2050). Coordinatori del dialogo euro-russo erano il futuro commissario europeo Günther Oettinger e il ministro russo per l’Energia Alexander Novak. L’energia (fossile) doveva divenire per i rapporti euro-russi ciò che il carbone e l’acciaio erano stati per la Francia e la Germania. «Entro il 2050 l’UE e la Russia dovrebbero far parte di un mercato energetico comune di taglia subcontinentale. Un mercato così ampliato richiederà il graduale ravvicinamento delle norme, degli standard e dei mercati nel settore dell’energia». Certo, l’allora presidente della Commissione Europea Manuel Barroso chiedeva al primo ministro Medvedev di rafforzare «Stato di diritto» e «libertà fondamentali», ma senza troppa convinzione.
La luna di miele tra la Russia e l’UE terminava poco dopo. Nel 2014 (anno cruciale per i rapporti tra Bruxelles e Kyïv, come si vedrà sotto) la Russia, con i suoi “omini verdi”, lanciava la prima aggressione contro l’Ucraina: relativamente poca cosa per Parigi, Berlino e Roma, un inquietante campanello d’allarme per Varsavia, Vilnius e Stoccolma.
Nel 2016 la Commissione Europea pubblicava la sua iniziativa Clean Energy for all Europeans, nel 2018 la Direttiva 2018/2001 sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili (rifusione) entrava in vigore. La predilezione di una certa eurocrazia per le energie verdi irritava sempre di più la Russia, superpotenza idrocarburica il cui export idrocarburico era, e resta, il pilastro economico nazionale (non a caso l’Ucraina da tempo colpisce raffinerie e gasdotti russi per fermare la macchina bellica di Mosca).
La vitalità dell’industria idrocarburica russa è sempre stata cruciale per il tenore di vita, e la capacità di influenza, della classe dirigente russa. Ecco perché la “svolta verde” di Bruxelles e di vari paesi europei ha destato le ire di Putin e della sua cerchia, fautori di una paleomodernità fossile. Nel 2019 un ukaz presidenziale definiva le tecnologie verdi una reale «minaccia alla sicurezza economica» russa. L’anno scorso un rapporto della NATO ha rilevato che «attori sostenuti dal Cremlino stanno promuovendo il negazionismo del cambiamento climatico in tutta l’Alleanza, cercando allo stesso tempo di ostacolare attivamente le politiche di mitigazione del cambiamento climatico e gli investimenti in energie rinnovabili». Ancora, «dall’inizio dell’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia si è osservato un notevole aumento della disinformazione russa relativa alla transizione energetica verde europea». Dal punto di vista di Mosca l’UE è venuta meno alla premessa di creare il già citato spazio energetico pan-europeo.
Ancora, l’UE è da tempo l’orizzonte dell’Ucraina. Tra il marzo e il giugno del 2014 fu firmato dalle autorità ucraine l’Accordo di associazione con l’UE (entrato poi in vigore nel 2017). La Революція гідності (rivoluzione della dignità) del 2014 nacque dal profondo desiderio del popolo ucraino di vivere la sua europeità, e fu innescata dall’Euromaidan, dalle proteste contro un potere statale che cercava in tutti i modi di impedire l’Accordo con l’UE. Perché Mosca, e i politici filo-russi a Kyïv, sono sempre stati consapevoli che più l’Ucraina si avvicinava all’UE, e più si allontanava dalla Russia. E il crescente allentamento dei rapporti economici, commerciali e industriali tra Russia e Ucraina è stato decisivo nella genesi dell’invasione del 2022.
Se l’Ucraina entrasse un giorno (com’è probabile e auspicabile) nell’UE, proverebbe a milioni di russi che un paese descritto dalla propaganda di regime come parte del mondo russo può sperare di vivere nella prosperità e nella libertà, e che la democrazia non porta per forza al caos hobbesiano degli anni della presidenza Él’cin. L’Ucraina si trasformerebbe allora nella vera anti-Russia, l’inquietante dimostrazione che un paese che fa parte dello «stesso spazio storico e spirituale» della Russia non necessita di un regime come quello putiniano per sfuggire alla miseria.
Se l’Ucraina diventasse il ventottesimo stato membro, l’eccezionalismo russo verrebbe incrinato, e la Russia perderebbe una volta per tutte un grande mercato di sbocco per i suoi prodotti, una cruciale riserva di manodopera e materie prime, una base industriale di grande rilevanza.
Nel suo noto articolo Sull’unità storica dei russi e degli ucraini, ormai architrave della Weltanschauung russa, Putin ha citato il concetto di “anti-Russia” sette volte. Troppe. La NATO, invece, è menzionata appena due volte. E la realtà che la NATO non è mai stata la causa primaria delle aggressioni russe all’Ucraina. Ancora oggi le possibilità che il paese esteuropeo possa entrare nella NATO sono bassissime, ed erano vicine allo zero prima del 2022. Al vertice di Bucarest del 2008 Francia e Germania (cioè i due principali paesi UE) si opposero all’ipotesi dell’Ucraina nella NATO; e del resto solo nel dicembre del 2014, mesi dopo l’inizio dell’occupazione illegale russa della Crimea, l’Ucraina si decise ad abbandonare lo status di paese non-allineato.
D’altra parte nel suo articolo Putin è stato chiaro: «l’Ucraina e la Russia si sono sviluppate come un singolo sistema economica nei decenni e nei secoli. La profonda cooperazione che avevamo 30 anni fa è un esempio da seguire per l’Unione Europea. Siamo [noi russi e gli ucraini] per natura partner economici complementari». E ancora: «Persino dopo gli eventi a Kiev del 2014 [la rivoluzione della dignità] incaricai il governo russo di elaborare delle opzioni per preservare e mantenere i nostri legami economici [con l’Ucraina]». Appunto.
I volti della guerra ibrida russa
Ma se l’ostilità di Mosca verso l’UE (che nel lontano 2006 Putin definiva «uno dei principali e più importanti partner della Russia») c’entra ben poco con il militarismo degli europei e con l’espansione della NATO (anzi: invadendo l’Ucraina il Cremlino ha spinto le due potenze militari nordiche, la Svezia e la Finlandia, a entrare nella NATO), e ha invece molto a che fare con l’economia e la geoeconomia, la guerra ibrida russa nei confronti di Bruxelles e di numerosi stati europei ha assunto le forme più svariate. Una guerra ambigua e proteiforme, che si è sostanziata, ad esempio, nella manipolazione politica e sociale.
Da anni infatti Mosca cerca di condizionare gli elettori e i governanti europei. Secondo alcuni osservatori il primo grande atto di manipolazione russa dei processi democratici europei sarebbe stata la campagna di influenza per condizionare l’esito del referendum sull’indipendenza scozzese, nel 2014.
La manipolazione politica e sociale russa avviene in vari modi: con vaste campagne di fake news; con il sostegno a partiti eurofobi, xenofobi e reazionari (ma pure populistici di sinistra); con interferenze nei processi decisionali di governi e parlamenti; con le minacce di apocalissi nucleari e nuove guerre (allo scopo di condizionare, atterrendoli, elettori e decisori); con l’incessante diffamazione di funzionari europei e capi di stato e governo (incluso il presidente Mattarella), e della UE nel suo complesso, dipinta – in base alla convenienza – come un’entità guerrafondaia e militarizzata, come un pericolo fascista (o nazista), come un vassallo degli USA (o della NATO), come un coacervo di imbecilli (si noti, a margine, che questo eterogeneo arsenale di vituperi non è frutto di confusione: Mosca sa che una parte degli europei è più sensibile al tema della UE “succube degli americani”, un’altra al tema della UE “guerrafondaia” o “idiota” – nel mercato delle opinioni c’è domanda per ogni tipo di insulto).
Vengono colpiti poi i media più autorevoli, storicamente cruciali non solo nei processi di formazione dell’opinione pubblica, ma nel controllo del potere (screditarli significa indebolire il tessuto democratico). L’operazione Doppelgänger, sconosciuta a molti, e riattivata di recente (in concomitanza con le elezioni federali tedesche), è un esempio agghiacciante della spietata guerra russa ai fatti. Del resto nel mondo della post-verità non c’è spazio per un’informazione libera, indipendente e di qualità.
Sia chiaro, il Cremlino e i suoi agenti (ad esempio la SDA) non sono onnipotenti. Non va sopravvalutato l’impatto delle loro azioni, che però sono una minaccia concreta alla democrazia europea. Da un lato ingannano i cittadini, spingendoli verso un cinismo ben noto alle autorità russe (e pericolosissimo, perché chi non crede più in niente è il suddito ideale di ogni regime). Dall’altro cercano di svuotare di senso il concetto stesso di democrazia rappresentativa europea, antitetico a quella “democrazia sovrana” russa che non ha certo rinnegato antichi retaggi stalinisti, e dove il culto del вождь (capo), e un plebiscitarismo kitsch coesistono con oligarchi corrotti, giudici e media asserviti, un’opposizione imbelle (del resto Stalin considerava l’URSS la più grande democrazia esistente, e il regime nazista si definiva, per bocca di Goebbels, die edelste Form der Demokratie, la più nobile forma di democrazia).
La Russia ha favorito negli anni l’elezione di donne e uomini felici di essere veicolo della Weltanschauung e degli interessi russi. “Cavalli di Troia” politici, pronti a tradire il proprio paese e gli interessi degli elettori in cambio di potere e/o ricchezze. Grande è infatti la capacità corruttiva russa. Il regime può offrire, ai propri “cavalli di Troia” politici, sostegno propagandistico e di intelligence; legittimazione internazionale; fondi per il partito; persino incarichi nei board di grandi aziende, una volta concluso il mandato.
Il risultato è che negli ultimi dieci anni il Cremlino è riuscito a costruire una capillare rete di politici europei “amici” (cosa segnalata da chi scrive già nel 2014), pescando in particolare nelle fila della destra più reazionaria (e più bisognosa di sostegno: undici o dodici anni fa l’ultraconservatorismo non era ancora mainstream).
Il regime russo ha puntato soprattutto su reietti, trasformisti e personaggi ai margini della grande politica; nihil sub sole novi: pratiche di questo tipo furono fatte proprie da Washington durante le Banana Wars in America centrale, o della Germania tra il 1939 e il 1945, quando mezze cartucce come Quisling in Norvegia, Van de Wiele in Belgio o Mussert nei Paesi Bassi furono portate alla ribalta da Berlino.
Il sostegno russo a partiti eurofobi, ultranazionalisti e anti-immigrazione ha contribuito a stravolgere il panorama politico europeo. L’evento che più ha cambiato l’UE negli ultimi anni, il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione, ha senz’altro acceso le brame manipolatorie di Mosca, e media russi come Sputnik hanno dato largo spazio ai sostenitori della Brexit; ciò non significa che la Brexit sia il mero frutto di un complotto russo, ma casomai che si è verificata una convergenza (forse temporanea) di interessi tra certi attori e gruppi britannici anti-UE e la Russia, decisa a staccare una delle maggiori potenze europee dalla UE (e il fatto che a Londra ci sia stata una forte cautela a indagare su eventuali intromissioni russe nella Brexit induce a pensar male).
Naturalmente l’ascesa dell’estrema destra in Europa non ha come causa primaria le attività russe. Le persone non votano un partito reazionario solo perché hanno visto un meme su Facebook o sentito un discorso a favore della Russia in radio. Ci sono ragioni profonde nel forte malcontento di una crescente fetta della popolazione europea (dallo smantellamento del welfare alla deindustrializzazione, dal disinteresse nei confronti delle aree periferiche al disgusto verso una classe dirigente percepita come egoista e incapace). Mosca ha sfruttato le ansie di un elettorato sempre più impoverito e impaurito, cercando di indirizzarle verso i suoi “cavalli di Troia” politici. Ma se anche solo un 2% degli elettori fosse condizionato nel suo voto dalle azioni russe, nei contesti politicamente polarizzati e ad alto astensionismo di molti paesi europei ciò potrebbe avere un impatto significativo.
Se la Russia riesce a condurre con estrema perizia vaste campagne di disinformazione e influenza, corruzione ecc. è anche grazie all’expertise russo di lunga data a riguardo, come sa chiunque abbia studiato la storia del KGB (dalle cui fila proviene l’uomo da anni al vertice della Russia). Tuttavia il regime per la sua guerra ibrida contro l’UE ricorre anche ad altre modalità, impensabili durante la Guerra Fredda: ad esempio gli attacchi cibernetici.
Nell’aprile del 2007 l’Estonia fu colpita da una violenta ondata di attacchi cibernetici. Prima di allora non si era mai assistito a nulla di simile. Non fu mai chiarito chi fosse il mandante dell’aggressione (anche se molti, non solo in Estonia, sospettarono Mosca), ma essa fu senz’altro utile agli interessi russi, ed ebbe luogo in una fase di aspre tensioni tra il paese baltico e la Russia.
Dal 2007 a oggi il ciberspazio è diventato, per le forze armate di tutto il mondo, il quinto dominio, dopo terra, acqua, aria e spazio. E la Russia (al pari dei suoi principali alleati: la Cina, l’Iran e la Corea del Nord) è una delle potenze che più ricorrono alla guerra cibernetica (cyberwarfare) per destabilizzare, indebolire e minacciare i paesi europei percepiti come ostili. L’aggressione del 2022 all’Ucraina ha aggravato la situazione, e soltanto negli ultimi due anni sono stati attribuiti ad agenzie o attori comunque controllati dalla Russia attacchi cibernetici contro istituzioni democratiche, media ed enti pubblici di Germania, Cechia e Francia. Sono poi aumentati in modo significativo i sabotaggi russi contro le infrastrutture del continente (ad esempio i misteriosi incidenti ai cavi sottomarini nel Baltico). E ancora, ci sarebbero i russi dietro vari attacchi incendiari in grandi magazzini e negozi. Mosca avrebbe poi cercato di eliminare Armin Papperger, AD della Rheinmetall, colosso tedesco della difesa che da tempo sostiene lo sforzo bellico dell’Ucraina. L’uso del condizionale (sarebbero, avrebbe…) è d’obbligo, perché la guerra ibrida della Russia contro l’Europa non è condotta da uomini in divisa, non ha contrassegni. Provare che dietro un rogo, l’invio di un drone o la distruzione di un cavo sottomarino ci sia il governo russo è arduo, per non dire impossibile. È una guerra ambigua, e pericolosissima, in un’epoca di ombre e certezze che si sgretolano.
Immagine in anteprima: Kremlin.ru, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons