Il 2025 non passerà certo alla storia come uno degli anni più spumeggianti per Sony, visto che a parte Death Stranding 2: On the Beach, uscito a giugno, da qui a fine anno l’unico altro titolo di rilievo ad approdare su PlayStation 5 è Ghost of Yōtei. Magra consolazione? Forse sì, anche se parliamo di un gioco comunque importante (il precedente Ghost of Tsushima ha venduto oltre 13 milioni di copie), nonché di un titolo che per gameplay e respiro narrativo ha tutte le carte in regola per fare breccia nel cuore di molti appassionati.
Atsu la vendicatrice tra vendetta e limiti tecnici
In Ghost of Yōtei tutto parte da una tragedia del passato e dal desiderio di vendetta di Atsu la quale, dopo anni dal massacro dei genitori per mano di un samurai rinnegato (Lord Saito) e dei suoi cinque complici, è decisa a tutto pur di ottenere giustizia. La sua intera vita dopo la tragedia, trascorsa a combattere come mercenaria nel Giappone di inizio XVII secolo, è improntata unicamente a trovare i colpevoli e a ucciderli. Durante il prologo, con tanto di spietati villain mascherati (i Sei di Yōtei) e la protagonista ridotta in fin di vita, ho quasi avuto la sensazione di essere tornato esattamente nel Giappone di Ubisoft, anche perché i due giochi sono ambientati praticamente nello stesso periodo storico seppur in luoghi diversi. Persino quando Atsu torna per la prima volta nella sua vecchia casa ormai distrutta e abbandonata e si rivivono i flashback della sua infanzia, il ricordo è andato subito alle sessioni di gioco estremamente simili nei panni di Naoe. Una fortissima sensazione di déjà-vu che, nel bene e nel male, anche per gli inevitabili richiami a Ghost of Tsushima, mi ha accompagnato per tutto il gioco, con in più l’aggravante che Ghost of Yōtei si limita a offrire un open world diligente e a tratti anche evocativo ma lontano per spessore grafico e ampiezza da quello di Naoe e Yasuke.
Nonostante gli indubbi passi avanti rispetto a Ghost of Tsushima, Ghost of Yōtei presenta un comparto tecnico non stratosferico per una produzione comunque importante a cui Sucker Punch ha dedicato quasi cinque anni di sviluppo. Giocato su PlayStation 5 Pro con il miglior preset possibile (ray tracing e 60 fps esclusivi per la console ammiraglia di Sony), Ghost of Yōtei offre come il suo predecessore un colpo d’occhio generale affascinante come scorci naturali, giochi cromatici, alcune cut-scene (non tutte), dettagli delle armature e scene di massa, ma il resto lascia molto più freddi. Animazioni ed espressioni facciali dei PNG sono infatti lontane dall’eccellenza, così come la resa della vegetazione (soprattutto dopo aver visto Kingdom Come: Deliverance II), l’effetto continuo e costante del vento, i modelli degli animali (lupi, cavalli, orsi), le texture, gli ambienti interni, le animazioni di Atsu e dei suoi compagni di avventura, l’illuminazione e gli effetti volumetrici.
La cura nell’abbigliamento è tra gli elementi grafici più riusciti del gioco.
Ecco perché non mi sono stupito quando Brian Fleming, co-fondatore di Sucker Punch, ha dichiarato che il budget di sviluppo di Ghost of Yōtei è rimasto sostanzialmente simile a quello di Ghost of Tsushima (circa 60 milioni di dollari). Non aspettatevi insomma la ricchezza visiva dei migliori open world oggi sulla piazza e, per un titolo così importante nella line-up di Sony, speravo sinceramente in qualcosa di più. Per fortuna Ghost of Yōtei riesce a convincere su altri fronti.
Alla scoperta di Ezo
Il gameplay, ad esempio, offre un convincente mix di combattimenti, esplorazione e sviluppo del personaggio. L’area di Ezo in cui è ambientato il gioco (corrispondente a una parte dell’attuale isola di Hokkaido) è decisamente ampia e comprende sezioni montuose (il monte Yōtei è un costante riferimento nei dialoghi), pianeggianti, fiumi, paludi, fortificazioni e piccoli insediamenti. L’esplorazione è facilitata sia dall’acquisto di mappe che rivelano punti di interesse, sia dal fatto che, non appena si scopre uno di questi punti o una zona minimamente importante, vi si può tornare quando si vuole dopo un caricamento praticamente istantaneo. Una bella comodità, che vorrei trovare in tutti i titoli simili e che spinge il giocatore a esplorare il più possibile, senza l’assillo di doversi poi rifare chilometri a cavallo per muoversi in un’altra area.
Inoltre, Sucker Punch ha puntato molto su percorsi verticali e sulle relative scalate. Alcuni sono obbligatori per accedere a campi nemici o a luoghi altrimenti inaccessibili, mentre altri appaiono opzionali. Inizialmente, scalare, saltare e aggrapparsi a tronchi e sporgenze con il rampino è anche divertente, ma a lungo andare il tasso di sfida piuttosto docile e i percorsi facilmente individuabili tramite i soliti escamotage (bandierine colorate, sporgenze a cui aggrapparsi in bella evidenza) rendono queste sezioni platform ripetitive, anche là dove (verso il finale) c’è di mezzo un inseguimento ad alta quota. Non nascondo però che cavalcare alla scoperta di Ezo ha il suo fascino e soprattutto la sua utilità, visto che gran parte della crescita di Atsu dipende proprio dalla scoperta di luoghi precisi.
Volete aumentare la barra della salute? Preparatevi a scoprire delle piccole vasche termali in cui fare il bagno; desiderate sbloccare le abilità nei vari rami di upgrade del personaggio? Dovete prima trovare dei piccoli tempietti sparsi per la mappa ed eventualmente liberare la zona circostante dai nemici prima di poterli sfruttare. Lo stesso dicasi per la quantità di Spirito, incrementabile eseguendo un minigioco di abilità con apposite postazioni di canne di bambù presenti solo in alcuni punti della mappa. Ghost of Yōtei è piacevolmente più “ristretto” nelle dimensioni della mappa rispetto a open world ancora più giganteschi, tanto che non mi sono mai sentito soverchiato dalla mole di chilometri da macinare a cavallo o di puntini sulla mappa che spuntano come funghi, con il risultato che la Ezo in cui si muove Atsu non è mai troppo dispersiva o grande giusto per il gusto di esserla.
Atsu può essere letale anche con le armi a distanza.
Anche là dove non si hanno informazioni precise per raggiungere un luogo preciso, basta muovere il dito dal basso verso l’alto sul touchpad del controller e osservare la direzione del vento per capire dove andare; nel complesso, insomma, l’esplorazione in Ghost of Yōtei è un punto a favore del gioco. Altri elementi del gameplay convincono di meno a causa di un forte riciclo di idee viste in tantissimi altri open world; ecco allora gli insediamenti nemici da liberare (con tanto di cut-scene in cui gli abitanti del posto ritornano felici), i mini-giochi carini le prime volte ma alla lunga stucchevoli (il shamisen da suonare, la cottura dei cibi, la scrittura e i disegni), le missioni che iniziano spesso e volentieri con dei PNG da seguire per interi minuti a piedi o a cavallo e le azioni “cooperative” da compiere assieme a un compagno di viaggio (rompere ostacoli con il rampino e aggrapparsi a sporgenze).
Qua e là il gioco propone anche dei semplici enigmi ambientali che, se non altro (come nella missione per uccidere uno dei Sei di Yōtei), variano un po’ il gameplay e ricordano certi frangenti in stile Tomb Raider/Uncharted. Ci sono poi diversi tipi di missioni oltre alle principali incentrate sulla vendetta di Atsu; ho apprezzato alcune quest per uccidere dei ricercati (che fungono in pratica da mini-boss), ma anche quelle per sbloccare le armi recandosi dai maestri nelle varie discipline di combattimento funzionano, non risultando troppo lunghe o dispersive.
Chi ha paura di Atsu?
A questo proposito, il combat system risulta piacevole e più variegato rispetto a quello di Ghost of Tsushima: Atsu puo’ infatti utilizzare diverse armi tra cui katana singola e doppia, una spada lunga, una lancia, coltelli da lancio, arco e persino una pistola e un fucile. Tutte le armi, potenziabili raccogliendo un certo tipo di risorse e spendendo ovviamente denaro, hanno un diverso grado di efficacia a seconda dei nemici che si hanno di fronte e lo stesso dicasi per il tipo di attacco. Sucker Punch ha studiato un sistema per cui, guardando il colore dell’attacco nemico (giallo, blu e rosso), bisogna agire di conseguenza con una parata, una schivata o un anticipo, trovando il giusto tempismo per sbilanciare il nemico ed eseguire un contrattacco più efficace. Tutto questo è arricchito da varianti come le bombe fumogene (utilissime quando si è circondati) ed esplosive, uccisioni stealth (anche in serie sbloccando la relativa abilità) e alcune meccaniche incentrate sul timore che Atsu è in grado di incutere nel nemico.
La sua missione di cacciatrice dei Sei di Yōtei l’ha infatti trasformata agli occhi degli abitanti di Ezo in una sorta di spirito vendicativo e, più si va avanti nel gioco, più la donna può compiere attacchi (tra cui una sorta di modalità berserk a tempo) che terrorizzano i nemici vicini facilitandone notevolmente l’uccisione. Ci sono poi altre trovate simpatiche come l’intervento di un lupo alleato e le immancabili combo da sbloccare, ma i pur riusciti combattimenti, che nel finale trasformano Atsu in una vera e propria macchina da guerra, devono vedersela con un’IA nemica piuttosto rudimentale, e che anche dopo tre aggiornamenti non è migliorata particolarmente.
Luci e ombre di un gioco molto atteso
A parte i boss, i nemici comuni difficilmente rappresentano un ostacolo anche quando sono numerosi (ho giocato a livello di difficoltà normale), un po’ perché sono lenti negli attacchi, un po’ perché basta allontanarsi un minimo dalla zona dello scontro per far perdere le proprie tracce, rifiatare e tornare all’attacco. L’unico picco di difficoltà l’ho riscontrato contro l’ultimo boss, ma per il resto, una volta che si prende il ritmo delle parate, schivate e anticipi, non si incontrano particolari difficoltà né nell’uccidere, né nel procurarsi le risorse necessarie per i potenziamenti (molti, tra l’altro, quelli puramente estetici).
La varietà di armi è un deciso passo avanti rispetto a ghost of tsushima.
Ho finito il gioco in circa 32 ore senza aver completato tutto al 100% (ma quasi), con la sensazione di un open world diligente ma anche risaputo e un po’ logoro nelle meccaniche e piuttosto comune nello svolgimento. Se da un lato il tono del racconto sa anche essere duro ed epico (ma meno di Tsushima) e propone almeno due colpi di scena efficaci, dall’altro il gioco inciampa in frangenti spesso un po’ banali, con lungaggini inutili poco prima del gran finale (la raccolta dei funghi vicino al tempio) e PNG che, a parte Lord Saito e un personaggio femminile dal passato misterioso, si dimenticano velocemente.
Senz’altro sono arrivato ai titoli di coda senza la spossatezza che mi hanno provocato altri open world recenti con le loro 70-80 ore di gioco, ma Ghost of Tsushima, uscito quando la “mania” degli action nell’antico Giappone non era ancora esplosa, mi era piaciuto di più. Non che Ghost of Yōtei sia un brutto gioco, anzi: se adorate il genere e l’ambientazione, ci andrete probabilmente a nozze; ma per essere l’unica grande esclusiva PlayStation 5 dell’anno assieme a Death Stranding 2: On the Beach le aspettative erano un po’ più altre.
MODUS OPERANDI
Ho scaricato Ghost of Yōtei da PlayStation Store e l’ho giocato su PlayStation 5 Pro portandolo a termine in circa 32 ore a livello di difficoltà Normale. Il gioco, disponibile dal 2 ottobre a 79,99 euro in esclusiva per le console Sony, è doppiato in inglese, giapponese e italiano e offre numerose opzioni di accessibilità. Le impostazioni grafiche sono quattro: Qualità (30 fps e risoluzione più alta), Prestazioni (60 fps a risoluzione più bassa), Ray Tracing (30 fps a risoluzione intermedia) e Ray Tracing Pro, una modalità esclusiva per PlayStation 5 Pro con supporto per i 60 fps a risoluzione intermedia.
Ghost of Yōtei offre un’esperienza open world che alterna momenti di grande fascino a evidenti limiti sul fronte tecnico, senza riuscire a competere con i migliori titoli del genere né a superare il suo stesso predecessore, Ghost of Tsushima. L’ambientazione, seppur suggestiva, trasmette una sensazione di déjà-vu, mentre grafica e narrazione faticano a lasciare un’impressione duratura. Il gameplay, invece, risulta solido grazie a combattimenti ben strutturati, un arsenale vario e un’esplorazione più mirata rispetto ad altri open world. Tuttavia, nel complesso, il gioco non riesce a imporsi come l’esclusiva di rilievo per PS5 che molti, me compreso, si aspettavano da uno dei titoli più attesi del 2025.