Inviata da Simone Billeci – Le parole di Umberto Galimberti, riportate da Orizzonte Scuola, hanno suscitato un acceso dibattito: più letteratura, meno computer; docenti più preparati, ruolo da ripensare. Tutto vero, tutto sacrosanto. Ma accanto a questi temi, se vogliamo davvero guardare in faccia la realtà della scuola italiana di oggi, c’è un nodo ancor più urgente da sciogliere: la medicalizzazione diffusa, la tendenza a refertare ogni cosa, a tradurre ogni difficoltà in diagnosi, ogni deviazione dalla norma in patologia.

Negli ultimi anni la scuola, più che luogo educativo, rischia di essere ridotta a un centro di osservazione clinica. Sulla scia del DSM-V – il manuale diagnostico che detta la grammatica della psichiatria contemporanea e che ha esteso enormemente le categorie di disturbo – la vita quotidiana degli studenti viene letta sempre più attraverso etichette mediche. Distrazione? ADHD. Riservatezza? Spettro autistico. Scarsa motivazione? Disturbo depressivo. Ansia prima di un’interrogazione? Disturbo d’ansia generalizzato.

Il risultato è che tutto e tutti vengono refertati. La lingua della scuola, che dovrebbe essere quella dell’apprendimento, del dialogo, della scoperta, si piega alla lingua dei certificati e dei protocolli. Il ragazzo non è più semplicemente un alunno con i suoi pregi e i suoi limiti, ma un “caso” da inquadrare, un documento da compilare, una diagnosi da rispettare.

In questa trasformazione, i docenti vengono spinti – spesso controvoglia – a diventare i primi segnalatori, a sollecitare valutazioni cliniche per non essere accusati di trascuratezza. E così il circolo si autoalimenta: più referti, più protocolli, più burocrazia.

Non si nega, ovviamente, l’utilità di strumenti diagnostici quando servono: ci sono situazioni reali, gravi, che necessitano di intervento. Ma l’attuale deriva ha oltrepassato ogni misura. Il referto, da mezzo per comprendere, è diventato fine a sé stesso, un marchio che accompagna l’alunno lungo tutto il percorso scolastico.

Il rischio è enorme: la diagnosi finisce per ridurre la persona alla sua etichetta, oscurando la ricchezza delle sue possibilità. Uno studente “con ADHD” diventa solo ADHD. Una ragazza “in depressione” diventa solo il suo disturbo. Tutto il resto – passioni, sogni, talenti, persino il diritto a sbagliare – passa in secondo piano.

Viviamo così in una scuola che non tollera più il limite, la fragilità, la lentezza. Una scuola che guarda con sospetto ogni deviazione dallo standard e che reagisce medicalizzando. È il segno di una società che non accetta più la complessità della crescita, con i suoi inciampi, i suoi silenzi, le sue ribellioni.

Ma se l’educazione viene sostituita dalla diagnosi, allora abbiamo smarrito la missione stessa della scuola: formare individui liberi, capaci di affrontare la vita nonostante – e grazie a – le loro imperfezioni.

Ecco perché, accanto alla denuncia di Galimberti contro l’invasione dei computer e contro l’inadeguatezza di molti docenti, occorre lanciare un grido d’allarme: liberiamo la scuola dall’ossessione del referto. Non possiamo permettere che la crescita di un ragazzo venga tradotta unicamente nel linguaggio del DSM, perché il rischio è formare generazioni convinte di essere “malate” a prescindere, incapaci di pensarsi come soggetti in cammino.

La vera emergenza culturale, oggi, non è solo la povertà di letteratura o il digitale che avanza. È la colonizzazione della vita scolastica da parte della diagnosi clinica. Se non invertiamo la rotta, la scuola smetterà di essere comunità educativa per diventare laboratorio psichiatrico. E questo sarebbe il tradimento più grande della sua missione.