PORDENONE – Rimettersi in gioco a 65 anni, dopo una carriera di medico legale e dirigente del Dipartimento di prevenzione dell’Azienda sanitaria Friuli Occidentale. Lucio Bomben, pordenonese con il cuore che batte in Val Tramontina, dal 1° ottobre sarà il nuovo medico di base di Meduno, Tramonti di Sopra e Tramonti di Sotto.
APPROFONDIMENTI
Dottor Bomben, perché ha preso questa decisione?
«Primo perché non potevo vedere più di duemila abitanti senza un’assistenza adeguata, mi è scappata una promessa e l’ho dovuta mantenere. L’altra ragione è più pesante. Bisogna guardare la vita da un’altra prospettiva: ho capito che non era più la sanità pubblica in cui credevo. Poi ho letto un articolo dell’attuale rettore della Cattolica, la professoressa Elena Beccalli, in cui diceva che la sanità per essere rifondata dovrebbe basarsi su quattro pilastri: persona, cura, dedizione e solidarietà. Ti guardi intorno e la persona è stata sostituita dal cliente, la cura dalla prestazione, la dedizione dalla disillusione e la solidarietà dall’individualismo. Per me vengono a crollare i presupposti di una sanità pubblica come dovrebbe essere, quindi qualsiasi aggiustamento organizzativo, se queste sono le fondamenta, diventa una sovrastruttura quasi inutile».
Come si può invertire la rotta?
«Tutti i tentativi sono destinati a fallire o a restare lo slogan di qualcuno. La stragrande maggioranza di chi lavora nella sanità sono persone di una bravura, professionalità e capacità incredibili, che nonostante le difficoltà si fanno il mazzo per mandare avanti la baracca. Basta vedere la vicenda delle ricette con scadenza? Ma chi è stato? È uno che non ha la minima idea di come siamo organizzati. Io sono un accanito lettore di Antonio Tabucchi, sono innamorato di un suo racconto: “Notte, mare o distanza”, in cui parla di un poeta le cui battaglie non sono servite a nulla e le uniche armi rimaste sono il sarcasmo e l’amarezza».
È stata una decisione dolorosa la sua allora?
«Le decisioni difficili devono essere dolorose, perché vuol dire rinunciare a un certo status, come essere direttore di Dipartimento, e andare allo sbaraglio. Un po’ di timore c’è, confesso che sono molto preoccupato per quello che succederà dal 1. ottobre. Ho già superato i 1.500 assistiti…».
Veramente la stanno aspettando a braccia aperte…
«Ho paura di aver creato troppo aspettative. Si aspettano tanto e a me aumenta il livello di ansia».
Come sono stati gli ultimi 14 anni al Dipartimento?
«Duri. Passi dalla lingua blu al decesso, dalle vaccinazioni a problemi di medicina del lavoro… hai una varietà di argomenti che devi cercare di approfondire. Anche se ti rendi conto di come sia difficile riuscire a fare quello che la norma prevede e quello che la tua coscienza ti dice di fare. L’anno scorso, ad esempio, la Regione ha dato 4 milioni e mezzo di euro per fare un programma di population health, cioè “salute della popolazione”, per verificare quali siano i bisogni nei vari comuni. Il progetto è partito a novembre con i primi incontri, ma dobbiamo ancora iniziare perché ci sono problemi di privacy. Ovvero, certi gestionali non possiamo utilizzarli perché riusciremmo a capire chi ha determinate patologie. Significa che se in una zona ci sono aumenti di casi di tumore, non posso incrociare i dati con quelli di ricaduta delle emissioni per capire se ci sono fattori di rischio. È un ostacolo che ci sta impedendo di proseguire».
E se ripensa al Covid?
«Non abbiano capito nulla. Poi leggo le dichiarazioni di qualcuno che è seduto negli scranni alti e mi viene la depressione. Se non ci mettiamo insieme a livello internazionale, come è stato fatto per la ricerca sui vaccini, noi siamo finiti. Quando sento dire che possiamo fare a meno dell’Oms, mi vengono i brividi».
Che consiglio darebbe a chi prenderà il suo posto al Dipartimento di prevenzione?
«Di studiare. Solo se studi e conosci riesci a governare in maniera ottimale. E di avere quella sensibilità di capire i problemi degli altri e di aiutarli».
E a un giovane specializzando in medicina legale?
«Che è il mestiere più bello del mondo, però dovrebbe fare solo patologia forense, occuparsi solo dei nostri cari morti».
Come medico legale che bilancio fa?
«Con la Procura chiudo alle ore 8 del 29 settembre. Non sono più di turno. Basta. Poi se è di turno mia moglie e sono a casa… cosa fai? E poi continuerò a studiare perché è una cosa troppo bella. Abbiamo la fortuna di avere in regione il professor D’Errico a Trieste: se vedete una delle sue autopsie, beh, un trattato di anatomia».
Non crede che attraverso un medico legale si possa avere uno spaccato della nostra società?
«Sì. Posso garantire che mai, come quando sei chiamato da carabinieri e polizia per i decessi, ti rendi conto del livello di solitudine che c’è. In tanti muoiono da soli, ti rendi conto di come questa società sia malata dentro, c’è tantissima solitudine».
Si riesce ad affrontare queste situazioni con distacco, senza restarne coinvolti?
«Non riesco più a staccare. Sarà l’età, sarà che vedo i nipotini che crescono, ma non ce la faccio più. Mi viene in mente la poesia di Montale… “spesso il male di vivere ho incontrato”. Io l’ho incontrato troppe volte, non ce la faccio più a reggere».
Quali sono i casi di cronaca che non riesce a dimenticare?
«Il marocchino che a Pordenone ha ucciso moglie e figlia (Touria e Hiba di 7 anni, ndr). E poi un infanticidio di Sacile: una bimba appena partorita messa in lavatrice… A un certo punto ho detto scusate devo andare in bagno, ma sono andato a piangere, mi viene anche adesso (gli salgono le lacrime agli occhi e la voce si incrina)».
Che cosa si aspetta dalla nuova esperienza?
«Spero di riallacciare le relazioni umane, sentire i bisogni della gente. Spero che comprendano i primi periodi, saranno per me durissimi. Faccio 26 ore di ambulatorio, ma va bene, voglio capire le loro esigenze, e farò visite a domicilio».
Lei è un uomo di fede?
«A volte sì a volte no. Con papa Francesco sì, con Giovanni Paolo II no. Tra l’altro vogliono farmi un regalo quando vado via dal Dipartimento, ho chiesto che i soldi raccolti vengano devoluti al Centro Balducci, la comunità di don Pierluigi Di Piazza, un prete a cui ero legato. Quando vado a Sappada, mi fermo a Tualis a trovarlo, apro il cancello del cimitero, entro da solo e cambia tutto. È una delle persone che ho ammirato e continuo ad ammirare. Ho studiato quello che ha scritto e ho capito che per fortuna quel po’ di fede che mi resta è perché ci sono preti come lui. Più vado avanti e più mi accorgo l’impronta che mi ha dato l’Università Cattolica, mi ha segnato vedere certi medici e infermieri come si ponevano davanti alle persone che avevano bisogno. È tutto lì».