Le lunghe liste di attesa rappresentano uno dei problemi più gravi della nostra sanità

Le lunghe liste di attesa rappresentano uno dei problemi più gravi della nostra sanità – Imagoeconomica

La corsa alla privatizzazione che strizza l’occhio a fondi e assicurazioni, lo spezzettamento nei tanti sistemi regionali che guardano con più convinzione al libero mercato – e che viene accentuato dall’autonomia differenziata -; e, soprattutto, la riduzione dei finanziamenti: eccoli, in un fiato, i mali del Servizio sanitario nazionale (Ssn). Mai così lontano dai principi, dettati dalla Costituzione, che ne hanno ispirato la nascita (1978), nell’alveo della travagliata stagione delle grandi e sofferte riforme politiche e sociali degli anni ’70; e mai così vicino a tradire il suo stesso genoma che poggia su universalità, equità, globalità di assistenza, e finanziamento attraverso la fiscalità generale.

Il quadro allarmante o, meglio, l’Sos a difesa del Ssn che, pure, continua a garantire agli italiani prestazioni giudicate tra le migliori al mondo, è Rosy Bindi, ministro della Sanità in un periodo in cui i governi cambiavano ad ogni primavera (1996-2000, esecutivi Prodi I e D’Alema I e II). Porta la sua firma il libro “Una sanità uguale per tutti. Perché la salute è un diritto” (Solferino, 174 pagine, 16,50 euro). Il volume è una fotografia dei passi che hanno portato il nostro Paese a dotarsi di un sistema unico e ambizioso, copiato e complesso, possibile eppur minato da quella che l’autrice definisce la trasformazione piegata dalla logica del profitto. E che arriva al termine di un processo lungo un cinquantennio, fatto di riforme, controriforme, leggi e decreti, e di un mai risolto terreno di scontro sul quale si affrontano due visioni diverse dell’erogazione del bene più importante.

Rosy Bindi, in questo percorso, ha scritto una pagina importante: fu lei a vergare il decreto legislativo 229 del 1999. Una sorta di risposta alla cosiddetta “controriforma” del 1992 voluta dall’allora ministro Francesco De Lorenzo, e che, spiega Bindi, mise in discussione la legge istitutiva del 1978 firmata dalla ministra Tina Anselmi (governo Andreotti IV), minandone le fondamenta con la volontà di aprire alle privatizzazioni. La misura di Rosy Bindi del ‘99 mirava a tornare al disegno originario, ben distante dall’«iniquo sistema ibrido dei “tre mercati”», come li definisce l’autrice. Uno dei quali, quello della «spesa privata intermediata, gestita da fondi, casse mutue e assicurazioni», per il governo Meloni dovrebbe costituire, con buona pace dei meno abbienti – avverte Bindi -, la «“seconda gamba” dell’assistenza sanitaria, un sistema parallelo al Servizio sanitario nazionale, ma finanziato dalle risorse delle famiglie» che, già nel 2023, sostenevano «un quarto» dei costi totali.

La copertina dell'ultimo libro di Rosy Bindi

La copertina dell’ultimo libro di Rosy Bindi – .

Il libro offre una disamina analitica di tutta la spesa del Ssn, da quella farmaceutica ai rimborsi destinati alle grandi holding del settore privato, il cui rapporto con il pubblico è oggetto di un capitolo. In un continente che invecchia, l’Italia lo fa anche di più, osserva Bindi, ma l’aumento dell’aspettativa di vita «è oggi compromesso non solo dall’aumento della povertà ma anche dalla diffusione di malattie croniche» che, spesso concomitanti, diventano invalidanti. E allora la cura delle fragilità è centrale per la politica. Lo è ancora di più quando si parla di risorse della non autosufficienza, che investe quasi 4 milioni di cittadini. In questo contesto, l’assistenza domiciliare, che potrebbe garantire una svolta epocale per i più deboli, stenta a decollare e le prestazioni offerte sono «del tutto insufficienti»; inoltre, la legge 33 del 2023 sulla non autosufficienza «deve essere completata», e ci sono solo «pochi soldi per pochissimi disabili».

Le risorse economiche sono al centro del lavoro di Rosy Bindi perché è dal rifinanziamento del Ssn, secondo l’ex ministra, che deve poggiare il rilancio del Ssn. Emblematiche in tal senso alcune tabelle che riassumono la spesa sanitaria, passata dai 110 miliardi del 2014 ai 138 del 2024; numeri che farebbero pensare ad una robusta iniezione di investimenti se non fosse da rapportare alla percentuale del Pil, passata dal 6,70 di 11 anni fa, al 6,30 dell’anno scorso. Ben distanti, cioè, da quanto occorrerebbe. Perché, evidenzia Bindi, «bisogna portare la dotazione del Fondo sanitario nazionale alla media dei principali Paesi europei che si aggira intorno al 10 per cento del Pil, raggiungendo da subito almeno il 7,5%».

Capitolo a parte l’autrice lo dedica al “caso Di Bella”, che prende il nome dal fisiatra modenese, scomparso nel 2003, che proponeva una multiterapia con diverse molecole per curare il cancro ma che non ebbe riscontri efficaci nella sperimentazione avviata dal ministero della Salute nel 1998. Ogni decisione, ogni drammatico passaggio di quanto accadde da dicembre 1997 a novembre 1998, viene ricostruito dall’allora ministra che sottolinea le tante similitudini di quella storia nella quale fu costretta a subire prese di posizione durissime, come quelle «di Alleanza Nazionale, che si schierò al fianco dei sostenitori del professore modenese, invocando la libertà di cura per attaccare l’oncologia italiana e screditare il Ssn», in un contesto in cui «la razionalità del metodo scientifico fu declassata a mera opinione e, come tale, suscettibile di essere contestata come qualsiasi altra opzione culturale e politica». Una storia che sembra ripetersi e sempre dalla stessa parte politica, vista lanche la “tiepida” (per usare un eufemismo) posizione dell’attuale governo italiano sui vaccini, e le stravaganti posizioni scientifiche dell’amministrazione Usa: «Oggi la comunità scientifica mondiale deve fare i conti con le ricadute delle politiche sovraniste e del populismo tecnocratico», mentre il governo Meloni, stigmatizza Bindi, «con una decisione scandalosa, ha schierato l’Italia al fianco dell’America di Trump e del suo ministro No Vax sui temi della salute globale». Proprio vero. Il Covid sembra non aver insegnato nulla.