Alejandro Aravena, noto per il suo sex appeal non meno che per i suoi progetti di housing sociale in Cile – e, non ultimo, per aver conquistato il Pritzker Price, il premio internazionale più ambito dagli architetti – tesse l’elogio della “street knowledge” albanese, la capacità di fare dal basso, di produrre città informale come in  tutti i paesi non occidentali, “fuori dal centro dell’impero”. Mentre propone di ribaltare il paradigma formalista e regolatorio dell’urbanizzazione europea, Aravena è in procinto di tirare su il suo primo grattacielo in pieno centro, il Tirana Society Towers, una cosuccia modesta da 100 piani. Stefano Boeri, autore del piano Tirana 2030, una visione della città piena di alberi e “Foreste orbitali”, si spinge a dire che l’Albania deve imparare dagli errori dei “fratelli maggiori” europei e “dire no” alle pressioni del Real Estate, per salvare le coste ricche di biodiversità e la vegetazione urbana. Lui per ora si è limitato a costruire: un bosco verticale, un cubo d’oro dietro la villa del fu dittatore Enver Hoxha, un palazzo residenziale di lusso a pochi passi dal cubo, e, summa del greenwashing, il Tirana Riverside Project, un progetto che secondo Doriana Musai, urbanista e critica, “[…] sebbene sia stato presentato come esempio di “smart city”  e iniziativa di recupero post-terremoto, è stato costruito in un’area non colpita dal terremoto ed imposto dall’alto, scollegato dalle esigenze del territorio. La comunità locale è stata sfollata con la forza tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021 dalla polizia, con tanto di gas lacrimogeni. È un classico esempio di come la pianificazione delle emergenze e il design d’importazione possano essere usati per giustificare l’espulsione degli abitanti su larga scala e la trasformazione violenta dello spazio con il pretesto dell’innovazione”.