di
Flavio Vanetti

il servizio nel volley è diventato una potente arma d’attacco, con velocità che superano i 130 km/h. Per contrastarla, la difesa è diventata più cruciale della ricezione pura. La diversificazione del servizio e il potenziamento degli atleti completano questa evoluzione

Possiamo parlare di evoluzione della specie. Dove la specie è la battuta nel volley. Senza arrivare ai ricordi delle partitelle durante l’ora di ginnastica a scuola, forse alcuni rammenteranno che anni fa in partita si usava la battuta flottante, magari «perfida» nelle traiettorie e negli «spin», ma non violenta. Ecco, non è più così, per quanto il servizio float sia tutt’altro che sparito. Ora siamo nel regno di «legnate» spaventose, anche se siamo ancora lontani dalle velocità delle prime palle di servizio del tennis. Grazie all’uso della racchetta, si raggiungono infatti facilmente i 220 orari, con la punta dei 263, record stabilito nel 2012 in Corea del Sud dall’australiano Samuel Groth ma non riconosciuto ufficialmente dall’Atp. 

Nel volley non c’è l’attrezzo esterno, l’umano è solo con il suo braccio: ma Wilfredo Leon, cubano di nascita naturalizzato polacco e avversario dell’Italia nella semifinale mondiale (oltre ad essere stato, a Perugia, protagonista della nostra serie A), ha raggiunto i 138 km/h (questo sì è primato riconosciuto), mentre al femminile resistono i 116 km/h di un servizio della nostra Paola Egonu, raggiunti nel 2024.



















































«Ormai è la norma vedere battute che oscillano tra i 115 e i 125 orari: il servizio è diventato il primo fondamentale d’attacco, prima non era così», spiega Andrea Anastasi, uno degli azzurri della «generazione di fenomeni» degli anni 90 e poi diventato, nella carriera di allenatore, per due volte commissario tecnico dell’Italia. All’inizio degli anni 90 c’era l’ungherese naturalizzato tedesco Georg Grozer, classe 1964 (padre di Georgy, a sua volta diventato pallavolista), che impressionava per le bordate: era così potente che qualche volta ha perfino spaccato il pallone (oggi non accade praticamente più: la resistenza è stata migliorata). 

Pian piano il servizio «duro» è cresciuto di importanza ed è diventato qualcosa di indispensabile con l’adozione di due novità, approvate nel 1998 ed entrate in vigore dal 1999: la regola secondo cui la palla che in battuta tocca la rete non comporta più il conteggio di un errore (a patto che rimanga in campo) e l’adozione del «rally point system», in base al quale ogni attacco vale un punto (prima, invece, contava solo quello ottenuto da un’azione partita dal proprio servizio). 

Negli ultimi dieci anni si è capito che la battuta sposta gli equilibri di un incontro: gli azzurri l’hanno ribadito nella finale iridata contro la Bulgaria. Non solo: prima il servizio violento era prerogativa degli schiacciatori e degli opposti, adesso picchiano come ossessi perfino i centrali.  Tutti quelli della Polonia, ad esempio, fanno così. L’Italia sotto questo aspetto fa un po’ eccezione: Simone Anzani usa ancora il servizio flottante, mentre Roberto Russo usa la cosiddetta battuta «ibrida», nel senso che alterna “float” e servizio in salto. 

«Di mezzo c’è pure il cambiamento fisico del pallavolista, cresciuto in prestanza e centimetri», aggiunge Anatasi, che racconta le metodologie adottate in allenamento per lavorare su questo fondamentale. «Un tempo le sedute erano da sei contro sei senza battuta. Oggi, invece, il servizio c’è. Anzi, si comincia a lavorare su di esso subito dopo il riscaldamento». Si procede quindi con l’affinamento della tecnica. «Nel mio schema studiamo la media delle velocità in battuta. Se ad esempio vediamo che su 20 servizi la media è di 110 orari, l’esercizio prevede, come obiettivo, effettuarne almeno 2 o 3 di seguito con quella velocità. Dopo si inserisce un servizio più “tranquillo”, perché di norma dopo due battute forti, che diventano magari degli ace, si sbaglia. Se ricordate, anche Yuri Romanò, nostro super-cannoniere, qua e là cambia tattica e alterna le “botte” a una battuta morbida, per quanto insidiosa». Quindi cannonate abbinate a «soft touches» e «smart solutions»: diversificare è sempre una buona idea.

Il servizio potente porta inevitabilmente a un interrogativo automatico: come lo si fronteggia efficacemente? «Questa nuova era del volley  — riprende Anastasi — fa sì che più che la ricezione sia importante la difesa. Quale differenza c’è tra i due concetti? La ricezione, che sfrutta il bagher, ovvero il colpo di risposta portato colpendo la palla dal basso in alto usando le braccia tese e le mani leggermente sovrapposte, aiuta a preparare un attacco: sostanzialmente è una prima mossa offensiva. Nella fase di difesa, invece, il “bagher” è spezzato e lo scopo è di rispondere nel miglior modo possibile, con un segreto assolutamente decisivo: tenere la palla in mezzo al campo per consentire al palleggiatore di fare la scelta se distribuirla a uno schiacciatore o a un centrale». 

Lo sport insegna che l’evoluzione del gesto e del fisico degli atleti è un processo magari lento ma inarrestabile. Non è dato sapere a quale velocità scaglierà il servizio il pallavolista dell’anno 2050, ma invece è sicuro che lavorare sempre più a fondo sulla fase difensiva sarà la miglior arma contro i bombardieri dalla linea dei 9 metri. 

29 settembre 2025