A History of Violence dopo vent’anni è ancora qualcosa di unico, di irripetibile, è uno di quei film che definiscono un genere in un certo momento. Ma soprattutto, quel 30 settembre del 2005, David Cronenberg ci regala una disamina perfetta della violenza nell’uomo, sul concetto di verità e di colpa. Soprattutto, è ancora oggi un’istantanea sul volto spietato e ambiguo della società americana.

Una piccola, terrificante, storia di violenza americana

A History of Violence apparentemente è quasi un’anomalia nel percorso di David Cronenberg, un regista che è noto per una dimensione cinematografica legata al body horror, ad un cinema visivamente ardito ed inquietante, spesso mix di più generi seducente, concettualmente quasi sempre anche molto estremo. A History of Violence, uscito esattamente vent’anni fa sul grande schermo, è il film con cui il regista canadese decide di essere apparentemente più classico, meno estremo in quanto a struttura ed iter. Ma allo stesso tempo, è anche un film in cui riesce ad approfondire maggiormente tematiche come la violenza, la moralità, l’apparenza nella società, il tema dalla colpa, la disgregazione dei principi cardine (o supposti tali) dell’essere umano. Il risultato finale, è il miglior thriller del XXI secolo, così come lo era stato Seven di David Fincher dieci anni prima, e come questo è parimenti un film il cui significato trascende la mera trama, sconfina nel sociale, nell’esistenziale.

A History of Violence è tratto da una graphic novel, creata da John Wagner e Vince Locke, uscita nel 1997 e dotata di graffianti e atipici disegni che una volta visti non si dimenticano. Un vero capolavoro, un mix tra noir e crime a cui si attacca perfettamente la definizione di romanzo per immagini, da cui John Olson tira fuori una sceneggiatura che ancora oggi stupisce per perfezione di progressione, profondità di personaggi e del loro percorso, la capacità di dare determinate certezze a un pubblico e poi toglierle in modo squisitamente improvviso. Protagonista di A History of Violence è la famiglia Stall, composta da Tom (Viggo Mortensen), la moglie Edie (Maria Bello), i figli Jack (Ashton Holmes) e Sarah (Heidi Hayes). Siamo nell’Indiana, in quella parte di America fatta di tante piccole cittadine dove tutto è quasi sempre uguale, dove non ci sono sorprese, pericoli e dove nessuno ci passa se proprio non deve. Tom lavora in una tavola calda, la sua vita è tranquilla, posata, in una piccola fattoria fuori dalla città.

una battaglia dopo l'altraUna battaglia dopo l’altra ha messo un’ipoteca sul titolo di “film dell’anno”

Un ottimo Leonardo Di Caprio e dei fenomenali Sean Penn e Benicio Del Toro combattono tutto e tutti in una delle migliori pellicole dell’anno, che esce in Italia questa settimana

Certo, c’è qualche problema, il figlio Jack viene bullizzato a scuola da alcuni coetanei, lui e la moglie vorrebbero avere un po’ più di tempo per se stessi, ma nulla di strano. Almeno fino a quando A History of Violence, come ogni racconto su un eroe che si rispetti fin dai tempi di Omero, non introduce un l’elemento dell’imprevisto, anzi due. Il piccolo sassolino che fa andare completamente fuori fase la vita di Tom, si palesa con due spietati delinquenti: Leland (Stephen McHattie) e Billy (Greg Bryk) che già si sono lasciati alle spalle diversi cadaveri. Rapinare la tavola calda di Tom però sarà l’ultima delle loro bravate, questi infatti, si rivela essere determinato, coraggioso e soprattutto letale, mandando entrambi al creatore. Diventa un piccolo eroe locale, le televisioni danno il suo volto in diretta nazionale ed è quello il momento in cui A History of Violence diventa qualcosa di completamente diverso. Succede quando un Ed Harris glaciale fa la sua comparsa in quella cittadina, nei panni del lugubre gangster di Philadelphia Carl Fogarty.

Questi è deciso a prendersi la vendetta contro Tom, che una volta si chiamava in realtà Joey Cusack e lo ha ridotto in passato in fin di vita, per poi sparire nel nulla. La cosa più eccezionale di A History of Violence, è come David Cronenberg dirige gli attori, faccia sì che Viggo Mortensen da uomo qualunque, di quelli che non guardi due volte per strada, riesca con un solo battito di ciglia a diventare una macchina assassina, ma non di quella John Wick, uscite da un videogioco. Tom è il volto del cittadino perbene, di cui ti fidi. Joey invece è terrificante, ciò che chiunque di noi può diventare in determinate situazioni, senza che Cronenberg dia un giudizio morale su tale fatto. Tom è affettuoso, misurato, saggio e comprensivo, Joey invece è un cane rabbioso e senza pietà, un uomo capace di uccidere come niente. La violenza secondo David Cronenberg è insita nell’uomo, è una risposta a ciò che ci arriva dal mondo esterno. Pure Jack, il figlio di Tom/Joey, alla fine diventa anche lui violento, pericoloso, arriverà ad uccidere per salvare il padre.

Il tema del doppio e quella visione di un’umanità sanguinaria

David Cronenberg non lesina violenza e sangue, si muore e pure piuttosto male in questo film, ma non viene mai a mancare un certo black humor, quasi destabilizzante. Ciò riguarda anche quel finale rocambolesco, con il fratello Richie, rispuntato dal passato, sadico, gigione e pazzo, con cui in poco più di dieci minuti William Hurt si prende una nomination agli Oscar e ci regala uno dei boss mafiosi più realistici che si siano mai visti sul grande schermo. La provincia americana, quella fatta di torte di mele, partite di football e il loro terribile caffè allungato, diventa l’OK Corral personale di un uomo, con cui David Cronenberg ci parla dei nostri errori, crimini, dell’illusione di poterli aggirare, rallentare, evitare. Ma il passato torna sempre a trovarti, perché Tom/Joey, la doppia faccia della società americana, rappresenta anche il dilemma dell’identità. Siamo ciò che siamo o ciò che sogniamo di essere? Quanto le nostre azioni possono essere rimediate, quanto una buona bugia può sostituire una cattiva verità?