Nel tristanzuolo day after del bagno marchigiano – difficile trovare anche solo un elemento positivo nel voto – nelle stanze del Partito democratico è già emerso un nuovo problema mica da poco. Che diciamo sul piano Donald Trump per Gaza? Al Nazareno nel pomeriggio di ieri si discuteva sul da farsi ma con un punto fermo: «Non possiamo rinunciare al riconoscimento dello Stato palestinese come hanno fatto decine di Paesi». Il responsabile esteri Peppe Provenzano ha infatti detto che «tutto quello che può aiutare la fine del conflitto va nella direzione giusta, è un passo avanti. Ci sono delle condizioni che però non possiamo eludere: il riconoscimento dello stato di Palestina e la soluzione dei due popoli e due stati». È un altro problema, che però fa capire che al Nazareno non è aria di convergenze parlamentari.

I riformisti del partito spiegano che stavolta dovrebbe essere perseguibile la strada dell’unità del Parlamento. Filippo Sensi ha scritto su X che «se si voterà in Parlamento sul piano di pace sul Medio Oriente, mi auguro che si mettano da parte le naturali, ovvie contrarietà tra maggioranza e opposizioni e si faccia uno sforzo di unità. Una volta tanto». E Lia Quartapelle ha spiegato che «sarebbe il colmo fronteggiarci e dividerci qui, quando il ruolo di Italia e Europa dovrebbe essere quello di favorire il cessate il fuoco lì».

Il governo, che non è stupido, fiuta l’aria e si appresta a compiere un’operazione che spacca le opposizioni proprio facendo votare giovedì prima alla Camera e poi al Senato un testo in cui si sostiene il piano Trump.

Matteo Renzi e Carlo Calenda hanno già detto di condividerlo. «È un piano molto serio – ha detto il leader di Italia Viva – ci hanno lavorato personalità di altissimo livello. È l’unico modo per bloccare il massacro di Gaza». Si è detto dei riformisti dem. Eppure il Partito democratico in un modo o nell’altro non sosterrà il piano di Trump e Benjamin Netanyahu, e così Alleanza Verdi-Sinistra, mentre più incerta pare la posizione di Giuseppe Conte.

Al partito di Schlein ha fatto orrore la scena del presidente americano con a fianco il capo israeliano, e ancora più i toni e le frasi pronunciate, oltre ad esserci vari punti sgraditi, compresa la presenza di Tony Blair nel board che dovrebbe sovrintendere alla fase post-bellica.

Ma anche votare no avrebbe l’effetto di allargare il fossato tra maggioranza e opposizione, il contrario di ciò che vorrebbe il Quirinale.

Se poi nelle prossime ore, cioè prima del voto di giovedì mattina, Hamas dovesse dire sì al piano americano concordato con Israele è chiaro che sarebbe ancora più difficile non votare il sostegno a un percorso sostenuto a quel punto da tutti.

Ecco perché il “Fattore G”, come Gaza, che per il campo largo avrebbe dovuto essere l’asso nella manica nelle Marche. Non solo lì non ha minimamente funzionato, ma si rivela un formidabile boomerang, un vettore di contraddizioni che dividono la coalizione costruita testardamente da Elly Schlein oltre che, come sempre in politica internazionale, il suo partito.

Della questione discuteranno stasera i gruppi parlamentari, sarà una riunione tosta. E le contraddizioni pesano anche sulle spalle di Arturo Scotto e Annalisa Corrado, i due parlamentari dem a bordo della nave italiana della Flotilla perché la loro intenzione è scendere alla prima intimazione dei militari israeliani: una scelta tardiva (sarebbe stato meglio scendere a Creta dopo l’appello di Sergio Mattarella) che li esporrebbe inevitabilmente agli strali dei duri e puri diretti in ogni caso verso le coste della Striscia.

E si può immaginare che bella accoglienza riceverebbero i dirigenti del Pd alla manifestazione di sabato a Roma, un appuntamento fissato prima del piano di pace. Se i terroristi lo accetteranno, paradossalmente potrebbe diventare una manifestazione che scavalca Hamas a sinistra. L’ultima follia del campo largo.