Pretendere che un film faccia esattamente quello che ci aspettiamo è la morte stessa dell’arte. Su questo siamo d’accordo un po’ tutti, credo. Quando hai sei anni è normale, quando cominci a ragionare e a capirci qualcosa di cinema e narrazione, ti rendi conto che le cose che ci restano più impresse e ci piacciono di più sono quelle che ci spiazzano, anche di poco, mettendoci di fronte a prospettive inedite. Quelle che ci fanno dire: “A questo punto, non so davvero dove si andrà a parare”. I Goonies, per fare un esempio da bambino di sei anni, non è bello perché rientra in una serie di cliché, il cinema dei bimbi in bici, ma perché sa dove scavalcare quei cliché per dirci una cosa originale (tipo che i mostri non hanno necessariamente l’aspetto di mostri) in maniera eccitante (quel capolavoro di Sloth). Tutte queste riflessioni mi sono venute stamattina prima di bere il caffè, a poche ore dalla visione del film in oggetto: Tornado. Ne parliamo dopo la… sigla!
Dicevamo: il titolo del film di oggi è Tornado. La trama è la seguente:
La figlia di un burattinaio giapponese si ritrova coinvolta in una pericolosa situazione quando il suo spettacolo si intreccia con le attività di una banda criminale guidata da Sugarman e suo figlio Little Sugar.
A questi dettagli aggiungiamo: il burattinaio giapponese e sua figlia (Tornado) si muovono nell’Inghilterra di fine ‘700, sono stranieri in terra straniera in un’epoca non certo globalizzata come oggi. Sugarman è interpretato da Tim Roth, suo figlio da Jack Lowden di Slow Horses, e nel cast ci sono anche Rory McCann di Game of Thrones e Joanne Whalley di Willow. Promette tutto molto bene. Un titolo così e una trama così a cosa vi fanno subito pensare? Io mi immaginavo una roba sopra le righe alla Blue Eye Samurai, tanto sangue, un mix improbabile di ambientazioni e riferimenti tra Barry Lyndon e Kill Bill. Invece, attenzione: Tornado è una cosa ben diversa. E, per il discorso che facevo prima, fin qui tutto benissimo.
Il regista e sceneggiatore John Maclean prima di questo aveva diretto Slow West. È chiaro che gli interessano i film western e Tornado lo è in pieno. C’è pochissimo di tarantiniano, e onestamente questo mi ha fatto tirare un gran sospiro di sollievo. Ci sono invece grandi spazi aperti, una banda di fuorilegge male assortiti, sporchi e violenti, alla ricerca del bottino di un loro colpo, e c’è il cowboy solitario, eroe riluttante che, prima per il proprio tornaconto e poi per principio, dovrà scontrarsi con i banditi, via che qui il cowboy solitario è una ragazzina giapponese che gira per l’Inghilterra con il padre ex samurai e uno spettacolo itinerante di marionette. Le cose si metteranno male e alla fine Tornado sarà costretta a passare la sua katana su parecchi dei coinvolti, in una spirale di vendetta che coinvolgerà anche un circo di freak la cui unica colpa sarà stata quella di aver aiutato lei e suo padre.
Kôki e Renato
Ecco, se questo fosse un film, e non una recensione sul vostro sito di cinema preferito, qui andrebbe piazzato il famoso colpo di scena di cui sopra. Perché sì, sulla carta è tutto fichissimo, ma la verità è che John Maclean non ha le idee chiarissime su cosa voglia raccontare, né ha la mano per girare un bel film d’azione. Visivamente, Maclean sa solo di voler confezionare Tornado come un western, ma l’unico modo in cui sa farlo è aderire pedissequamente all’estetica del genere, a costo di appiattire qualunque spunto originale. Sappiamo che il film è ambientato nel 1790 perché una didascalia ce lo dice all’inizio, altrimenti sarebbe impossibile capirlo perché tutti indossano dei generici abiti otto/novecenteschi da normale western. Nemmeno le scenografie aiutano: la carovana dei freak, ad esempio, ha un design interessante e comunica l’idea che i carri siano stati costruiti con pezzi rubacchiati qua e là e assemblati alla meno peggio. Poi però entriamo in uno dei carri e ci troviamo assi di legno bianchissime e poster alle pareti. Non dico che nel 1790 non ci potessero essere, ma i poster sembrano usciti freschi dalla stampante dell’ufficio di produzione e le assi sono più dritte e linde che in uno showroom Ikea.
Il tono scelto da Maclean è quello di un western meditabondo, pochi dialoghi e un incedere lento. Per carità, anche questo è legittimo, e lungi da me criticare un regista con un’idea di cinema così asciutta e rigorosa. Ma c’è lento e LENTO, e Tornado è decisamente LENTO. Soprattutto è un film educato, che chiede permesso prima di entrare e si toglie le scarpe per paura di sporcare. Il tutto è studiato per ottenere il massimo scarto quando, finalmente, nel terzo atto, Tornado estrarrà la spada e inizierà la mattanza. Peccato che le scene d’azione si riducano a un paio di inquadrature timide timide, anche lì bene educate, montate pure maluccio. È un cinema action di montaggio e non di gesti, ed è palese quanto questo sia dettato dall’assenza di mano del regista. O forse dal suo scarso interesse e dalla presunzione che l’atmosfera sia sufficiente e molto più importante di quelle robe lì che piacciono a voi fanatici del cinema boom boom, che vi arrapate con la violenza. Vergognatevi.
“Sei lento o sei rock?”
Al di là di tutti i problemi elencati, il più grosso resta che Tornado ha un intreccio banale. Sembra quasi che Maclean ritenga di aver confezionato una roba a così alto tasso artistico da potersi permettere una storia lineare, tanto l’atmosfera farà il grosso. Ma non è così, e c’è una bella differenza tra lineare e prevedibile: dopo cinque minuti avrete già capito dove il film andrà a parare e avrete molto probabilmente indovinato.
Per fortuna che, in tutto questo, ci sono almeno Tim Roth, che infonde al suo Sugarman tutto il carisma necessario e ci aggiunge aggratis una malinconia nello sguardo che lo rende di colpo molto più complesso che sulla carta, e Kôki, la ragazzetta che interpreta Tornado ed è una vera rivelazione, dimostrandosi capace di reggere buona parte del film sulle sue spalle e di funzionare sia nella parti drammatiche che in quelle action.
La dinamicità dell’azione
Il film si conclude sul più bello, quando dalle ceneri della tragedia viene forgiata una nuova eroina, una ronin destinata a vagare per le isole britanniche dei primi dell’Ottocento, a raddrizzare torti a filo di katana. A ‘sto punto quasi spero che facciano un sequel, ché altrimenti questi novanta minuti sarebbero stati una faticaccia inutile.
Arriva sicuro in streaming quote:
“Preparati ad assaggiare la mia katana, ma senza impegno.”
George Rohmer, i400Calci.com