Era il 1995 e Francesca Dominici da Ciampino approdava alla Duke North Caroline con una borsa di studio e senza spiccicare una parola d’inglese. «Dovevo starci tre mesi, pensavo di non resistere due settimane, ci sono rimasta trent’anni», racconta. Oggi è una delle menti più brillanti a livello globale nel campo della biostatistica e della data science: professoressa a Harvard, è stata inserita da Time Magazine nella lista dei 100 scienziati top al mondo soprattutto per i suoi studi rivoluzionari sull’impatto sulla salute delle polveri sottili negli Usa. Dei suoi risultati Dominici parlerà il 2 ottobre in occasione della Milano Digital Week (promossa dal Comune di Milano e realizzata da TIG – The Innovation Group). Racconterà fino a che punto la tecnologia è stata ed è decisiva per il suo lavoro su inquinamento, salute pubblica e crisi climatica. L’abbiamo incontrata per parlare di intelligenza artificiale responsabile ai tempi di Trump, delle difficoltà che affronta a Harvard in questo momento storico e anche di come è riuscita a fare carriera come scienziata, in un mondo maschile.

Trump contro Harvard, persi  2,4 miliardi di dollari per i tagli ai fondi per la ricerca in Usa

Intelligenza artificiale e salute, intervista a Francesca Dominici, professoressa di biostatistica ad Harvard

Che cosa può fare l’intelligenza artificiale per la biostatistica? «Grazie all’esplosione della tecnologia negli ultimi anni abbiamo accesso a moltissimi dati. E non solo numeri ma video, immagini, testo. Per esempio l’informazione che ci arriva continuamente dai satelliti. L’intelligenza artificiale ci permette di ingerire tutti questi dati che chiamiamo multimodali e di analizzarli con una potenza computazionale praticamente illimitata. Possiamo capire chi respira aria inquinata con una precisione di 50 metri, di stimare gli effetti nocivi sulla salute e anche di prevenirli. Con l’analisi statistica tradizionale, nella montagna di dati disponibili bisogna necessariamente scegliere un sotto insieme su cui concentrarsi. Per esempio, poniamo di volere studiare gli effetti degli inquinanti sulla popolazione con l’Alzheimer e isoliamo questo gruppo. Ma se poi volessimo considerare gli effetti su chi ha avuto una malattia cardiovascolare, con i metodi tradizionali dobbiamo ricominciare da capo, passerebbero mesi. L’intelligenza artificiale rifà tutto in pochi istanti. Ma non solo la velocità, anche la potenza e la precisione sono assolutamente sorprendenti. Certo, visto che ci occupiamo anche di cambiamento climatico, non possiamo ignorare che l’intelligenza artificiale sta consumando tantissima energia e ci sta portando indietro sulla strada verso la riduzione delle emissioni. È un tema che mi sta molto a cuore, ci sto lavorando».

L’intelligenza artificiale per lo studio dell’inquinamento

Quali sono i risultati più importanti che ha ottenuto? «Negli ultimi dieci anni siamo riusciti a dimostrare che i livelli massimi di inquinanti atmosferici stabiliti dall’Agenzia per la protezione ambientale statunitense non erano innocui come si pensava. Questo ha portato Biden a fare una revisione delle leggi abbassando il livello del particolato sottile considerato inquinante: prima la soglia era 12, adesso è 9. E questo ha avuto conseguenze importantissime a livello sanitario ed economico. Nessuno può scegliere di non respirare, quindi migliorare la qualità dell’aria, in base a tutte le analisi di costo e beneficio, porta a risparmi di bilioni di dollari in spese mediche. Per la precisione il rapporto benefici-costo di fare delle leggi che portano a pulire l’aria è di 30 a 1».

Francesca Dominici, professoressa di biostatica e preside associato senior per la ricerca presso la Harvard T.H. Chan School of Public Health. Kris Snibbe/Harvard Staff Photographer

Francesca Dominici, da Roma ad Harvard

Con la statistica è stato colpo di fulmine. Con l’America un amore cresciuto lentamente? «È così: ho capito subito che la statistica intesa come mezzo per risolvere problemi concreti sarebbe stata la mia vita. Con l’America invece non è stato  amore a prima vista, anzi pensavo non fosse proprio adatta a me. Venivo da una famiglia umile, non avevo niente e non conoscevo nessuno. I primi giorni – ero nel North Carolina – mi mancava il cappuccino, la possibilità di andare a spasso, la gente. Però mi sono resa conto di quante fossero le opportunità di crescita per chi studia: mi ha colpito tantissimo. E, devo dire, l’America mi ha dato tutto. Al punto che continuo a rimanere qui, nonostante le difficoltà. Anche se il mio stipendio è salvo ma non si sa per quanto».

Le minacce di Trump e l’ottimismo sul futuro

Si è mai sentita minacciata direttamente da Donald Trump? «Direi di sì ma durante la prima amministrazione Trump: avevo pubblicato delle cose importanti e lui le screditò apertamente. In questi nove mesi della seconda, no, non ancora. Se non pubblichiamo nulla direttamente in contraddizione con quello che lui vuole fare, ci lascia in pace. Ma subiamo quotidianamento l’attacco a Harvard, e questo rende la vita di una scienziata come me veramente difficile. Però resto una persona molto ottimista e vedo le crisi come delle opportunità. Siamo sopravvissuti alla prima amministrazione Trump, siamo sopravvissuti al Covid durante l’amministrazione Trump e, per quanto questo sia un momento triste e buio per l’America, nel lungo periodo penso che le cose cambieranno. Quello che stiamo vivendo non è permanente. Per questo continuo a credere ad Harvard: a pensare che sia un posto unico, sia dal punto di vista scientifico, sia per l’impatto che ha sulle carriere di chi ci lavora».

I tagli alla ricerca, il maschilismo, la deregulation ambientale

Si riferisce al taglio dei fondi alle università? «Il taglio dei fondi per la ricerca è totale, ma non è solo quello. Da noi, ad Harvard, la situazione è da panico. Anche perché quello che serve al mio laboratorio per andare avanti non è alla portata di nessun filantropo che scelga di finanziarci, neanche di Bill Gates o Michael Bloomberg. Solo la School of Public Health a Harvard ha bisogno di 720 milioni l’anno. Ma nuovi ostacoli saltano fuori ogni giorno: vedi la decisione di Trump di fare pagare 100mila dollari il permesso di lavoro per i ragazzi che vengono a studiare all’università. Quanto la situazione sia difficile lo dice la sparizione di tutte le presidentesse donne della Ivy League dell’Università americana: Brown, Columbia, Cornell, Dartmouth, Harvard, Princeton, Pennsylvania e Yale erano guidate da donne, oggi non più. E in questo clima, con l’amministrazione Trump che spinge per una deregulation totale in campo ambientale, assistiamo a un’esplosione senza precedenti dell’AI. Le conseguenze saranno drammatiche».

Le conseguenze negative sullo sviluppo dell’intelligenza artificiale

Che cosa immagina? «Io stessa spingo i miei ricercatori ad andarsene ma è vero che in Europa e in Canada non ci sono abbastanza università e abbastanza fondi: niente di paragonabile a quello che potevamo fare noi. Quindi alla fine temo che questa situazione porterà a una perdita del capitale intellettuale enorme. Questo avrà delle ripercussioni negative sulla ricerca, per esempio, per trovare nuove cure per l’Alzheimer e prevenire le malattie degli inquinanti. Ma anche dal punto di vista dell’intelligenza artificiale: il rischio è che si affermi un’intelligenza artificiale irresponsabile. E questo perché chi potrà fare la ricerca artificiale saranno soprattutto le industrie, i cui interessi economici non sono sempre etici, né responsabili, né equi. Anzi. Chi potrà accedere a questi tools sarà un numero molto limitato di persone e con una visione del mondo molto ristretta. Però, ne sono convinta, passerà anche questo periodo. Sono molto ottimista e credo nel giro di qualche anno grazie all’intelligenza artificiale riusciremo a cambiare le leggi americane e nel mondo per quanto riguarda tante cose, e in particolare la prevenzione delle malattie».

Donna in un mondo maschile. «Mi sono detta: non puoi piacere a tutti, vai avanti»

Ha avuto difficoltà a fare valere le sue idee nel mondo accademico in quanto donna? Ha adottato qualche strategia o ha improvvisato? «Me la sono studiata, la strategia, perché sono una scienziata. Come donne abbiamo sempre il complesso di dovere piacere a tutti. Ero così anche io. E, come oggi, anche allora lavoravo solo con uomini. In ogni stanza in cui entravo io ero una e gli uomini sei, otto, dieci. Entravo cercando di essere simpatica a tutti, di fare felici tutti, di dire sì a tutti. Poi a un certo punto mi sono guardata allo specchio e mi sono detta: “Francesca, basta. Ci saranno delle persone che ti criticheranno, che ti giudicheranno troppo aggressiva, tu vai avanti”. Oggi entro e dico quello che penso: lo faccio in modo sempre molto professionale ma ad alcuni, siccome sono donna, sembrerò aggressiva. Lo so. Ma… pazienza».