Certo, c’è l’enorme Una battaglia dopo l’altra, e una volta che al cinema c’è un film enorme e di cui addirittura si parla (nel 2025!) ci si riesce persino ad alzare dal divano. Però date una chance, questo weekend, a due piccoli enormi film italiani che escono insieme, e che sembrano allacciati da un destino comune.

Le città di pianura di Francesco Sossai è uscito, all’americana, prima in limited release, poi dal 2 ottobre sarà in tutt’Italia; solo che il suo limited non era New York e Los Angeles ma il Triveneto, ed è bellissimo e giustissimo così. Esce il 2 ottobre anche Testa o croce? di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis. Non sembra una sfida, anche se purtroppo un po’ rischia di esserlo: basta solo non concentrarsi sugli incassi del primo fine settimana e pensare, come vedo accadere presentando titoli che hanno anche due o tre anni di vita, che oggi i film possono (devono) avere, appunto, vita più lunga.

Il loro sembra, dicevo, un destino comune. Erano entrambi all’ultimo Festival di Cannes, nella stessa sezione, cioè Un Certain Regard. Entrambi ne sono tornati, indegnamente, senza premi. Soprattutto, hanno entrambi la stessa natura, la stessa vocazione. Lo dice Sossai nell’intervista con Rolling Stone di qualche giorno fa: «Con Rigo de Righi e Zoppis, condivido la voglia di fare un cinema che sia cinema. Di mettersi in dialogo con la tradizione. Io ho riletto il road movie, loro il western».

«Un cinema che sia cinema», e anche questa, nel 2025, è una scelta di campo. Però con lo spirito di chi vuole andare a riprendersi il pubblico. Quel pubblico che sembrava smarrito, in particolare riguardo al cinema italiano. A un certo punto s’è sparpagliato, o non s’è più fidato, o va’ a sapere. Un cinema d’autore che oggi, combattuta davvero una battaglia dopo l’altra (lo dico senza retorica e senza addentrarmi in taxcreditismi di sorta), prova a riposizionarsi, e scusate per la parola bruttissima.

Sergio Romano (Carlobianchi), Filippo Scotti (Giulio) e Pierpaolo Capovilla (Doriano) in ‘Le città di pianura’ di Francesco Sossai. Foto: Vivo film/Maze Pictures

Torno ai film. Le città di pianura è un bellissimo road movie, come dice il suo autore, connaturatamente provinciale, anzi proprio veneto, che riprende stili e stilemi del buddy movie, anzi proprio della bromance, per fare un viaggio nuovo, che non assomiglia a niente (non certo al nostro cinema recente, almeno). Tre volti eccezionali e inusuali (lo studente Filippo Scotti che incontra i due balordi in cerca dell’ultimo giro al bar Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla), i balli country e i divani letto di fortuna, i conti e i geometri, il Rolex della pensione e Carlo Scarpa, gli occhiali da sole rubati e le canzoni di Krano, il fare niente e il vivere tutto. E un segreto che non sapremo mai, come dev’essere (soprattutto al cinema). Potrebbe essere un videoclip di Cochi e Renato girato da Kaurismäki, che è una cosa che vorrei vedere adesso.

Testa o croce? è un western sghembo e bellissimo anche lui, girato come solo sanno girare i suoi due autori che stanno in un territorio (im)preciso tra Herzog e il B-movie anni ’70. Ed è lì che pare nascere questo duello tra cowboy (John C. Reilly alias Buffalo Bill!) e butteri (Alessandro Borghi) dove però la vera protagonista è una donna (la splendente Nadia Tereszkiewicz) forte tosta indipendente – e abbigliata un po’ come Claudia Cardinale nel suo West. Ci sono baci e pistole, rodei allestiti fuori Roma (è successo per davvero, c’era Buffalo Bill per davvero), rane, paludi, taglie sulla testa di presunti banditi, e la testa di un morto che parla. E una filastrocca che non sapremo mai cosa racconta davvero, come dev’essere. È un oggetto strano che rifrange luce, classico e totalmente di adesso.

John C. Reilly è Buffalo Bill in ‘Testa o croce?’ di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis. Foto: Ring Film

Parlerei a lungo di entrambi i film, che sono due film di viaggio, girovaghi, anche circensi nel loro passare da un numero all’altro apparentemente senza ragione, in realtà con un nuovo modo di narrare. Appaiati dal destino, da reparti – fotografia, montaggio, scene, tutto – che confezionano un modo nuovo di (farci) guardare. «Un cinema che sia cinema» che sbircia quello che succede fuori: Sossai è assolutamente non provinciale nello sguardo, forse perché è capace di far diventare Mestre tutto il mondo; Rigo de Righi e Zoppis si piazzano naturalmente in una mappa, anche cinematografica, più ampia, che ricorda un certo cinema sudamericano libero e selvaggio.

Questo è un cinema che è cinema forse perché è, prima di tutto, un cinema corsaro, dove torni a sentire, oltre alla voce degli autori, l’occhio di produttori che si sono stufati di parlare solo al loro circoletto (cit.), fin quasi a non sentirsi più. Hanno invece capito che il pubblico del cinema è cambiato come è cambiato chi il cinema lo fa, che si è ringiovanito (nel 2025!), che ci sono nuove rotte, nuovi occhi, quelli di chi il cinema lo guarda.

E quindi mo’ tocca a voi. Che vi sarete stufati, avrete combattuto e perso una battaglia dopo l’altra, una falsa rinascita del cinema italiano dopo l’altro. E vi capisco. Io non sto qui a vendervi un’altra leggenda come Buffalo Bill ai romani. Vi dico solo che ci sono in sala due film italiani bellissimi. Che c’è un nuovo cinema che è cinema, e che se non andate a prenderlo, stavolta è solo colpa vostra.