di
Federico Berni
La vice direttrice del Corriere Fiorenza Sarzanini risponde ai lettori sul caso Garlasco
Ormai è diventato il “giallo” per eccellenza. L’omicidio di Chiara Poggi a Garlasco, il 13 agosto 2007, è prepotentemente tornato alla ribalta con le nuove indagini della procura di Pavia, tra caos mediatico e clamorosi colpi di scena. Tema divisivo, nell’opinione pubblica, tra coloro che sono convinti della colpevolezza dell’unico condannato in via definitiva a 16 anni, l’ex fidanzato della vittima Alberto Stasi, e chi crede nella validità nuovi scenari investigativi. Ma anche argomento che pone molte riflessioni, da quelle sul funzionamento e sui tempi della giustizia italiana, o quella sull’invadenza e i pericoli del cosiddetti “processi in tv”.
Fiorenza Sarzanini, vice direttrice del Corriere della Sera che come cronista ha seguito casi giudiziari di grande rilievo, ha risposto alle domande dei lettori nell’ambito dell’appuntamento del primo ottobre delle Conversazioni del Corriere, iniziativa riservata agli abbonati alla testata (qui ci si abbona al Corriere, qui tutte le Conversazioni), con la conduzione di Maria Serena Natale.
Considerando la sua competenza professionale, qual è la sua ipotesi sull’accaduto?
«Avendo seguito l’evoluzione dell’inchiesta, l’idea che mi sono fatta è che questo non sia un delitto premeditato, sembra un delitto d’impeto, nato probabilmente da un rifiuto di Chiara Poggi a un’avance sessuale, o comunque da una lite che si è scatenata con l’assassino, o con “gli assassini”, perché qui le zone d’ombra sono tante. È bene dire che esiste una sentenza definitiva che condanna Alberto Stasi e la dobbiamo rispettare, anche come riguardo alla giustizie e alla famiglia di Chiara Poggi, ma va ricordato anche che Stasi è stato assolto due volte».
Come è possibile che le indagini continuino a distanza di tanti anni e dopo una condanna definitiva? Che cosa non è stato adeguatamente svolto a suo tempo?
«In questa vicenda non si è arrivati alla condanna oltre ogni ragionevole dubbio, come impone il nostro ordinamento, e questo ha aperto la strada a un supplemento di indagine chiesto dagli avvocati di Stasi, che hanno insistito perché venissero svolti ulteriori accertamenti. Lo hanno fatto anche sulla base di una serie di buchi nell’indagine svolta all’epoca. Penso sia opportuno che vengano fatti accertamenti seri e rigorosi e che siano anche più riservati, perché ci sono in ballo altre vite, lo dico anche contro il nostro interesse di giornalisti».
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Com’è stato possibile arrivare alla condanna di Alberto Stasi dopo due assoluzioni e nonostante, in Cassazione, lo stesso Procuratore Generale avesse evidenziato la debolezza dell’impianto accusatorio? Se veramente Stasi risultasse innocente, quale potrebbe essere l’entità del risarcimento per aver perso gli anni migliori della vita?
«Il principio del ragionevole dubbio – ripeto – non è stato rispettato. Per ottenere la revisione ci vogliono elementi forti che fino a ora non sono stati portati; è evidente che, qualora la nuova inchiesta portasse a sentenza di condanna definitiva di Andrea Sempio o di altri imputati, è chiaro che Alberto Stasi potrebbe avanzare istanza di ingiusta detenzione, che sarebbe immagino da centinaia di migliaia di euro. È ancora presto, e non è detto che una nuova indagine possa annullare la sentenza di Cassazione. Se a un condannato bastasse denunciare un’altra persona per uscire dal carcere, perderemmo la certezza del diritto».
Vengono resi noti molti elementi in questa inchiesta che poi si perdono, perché succede questo?
«Le tecniche investigative si sono evolute. Diciotto anni fa non era possibile evidenziare certe tracce. A volte si fanno uscire sulla stampa degli elementi investigativi anche per capire la reazione degli indagati. Per ora però non ci sono prove contro Sempio, ma solo indizi, altrimenti sarebbe già stato arrestato».
I media perdono credibilità su questa storia?
«Il nostro lavoro ci impone di dare le notizie, di fare informazione, e mi sembra che al Corriere lo stiamo facendo correttamente, io stessa ho rivolto un invito a tenere i toni bassi in primo luogo a me stessa e ai colleghi. Non possiamo negare che i social abbiano influenza sui cittadini, ma anche su di noi giornalisti. Non è che sui canali social si dicano solo cose false, ma si aprono dibattiti talmente ampi che arrivano a comprendere anche elementi estranei alle indagini. Noi, dal canto nostro, dobbiamo dare conto ai lettori di quello che accade».
Cosa rende credibile che l’ex procuratore Mario Venditti si sia fatto corrompere con 20/30mila euro? E chi ci dice che i 40mila euro non siano la prosecuzione di altre trance ricevute?
«La corruzione esiste in tutti i campi. Ho seguito il caso di giudici corrotti a Roma. Trovo doveroso, se ci sono elementi, che venga fatta indagine anche su questo aspetto. Il problema non è quanto. Il punto è che un procuratore possa aver messo a disposizione la sua funzione al servizio di un indagato. Spero non sia vero. Ho però qualche dubbio in questo senso; mi convince l’ipotesi del nostro lettore che pensava che i soldi possano essere andati a qualche suo collaboratore. Sappiamo che Sempio fu indagato e estromesso all’improvviso dall’indagine».
Perché tanta rilevanza dell’asserito alibi che dovrebbe fornire lo scontrino della sosta auto. Forse già allora veniva impressa la targa dell’auto in sosta?
«Sta emergendo che quello scontrino sia servito per fornire un falso alibi. E questa è certo una di quelle circostanze che vanno approfondite. Lo si deve a Chiara Poggi, a Stasi, alla verità».
Perché la famiglia Poggi, ed in particolare l’avvocato Tizzoni, sembra essere contro l’eventuale verità che sta venendo a galla?
Come interpreta la chiusura della famiglia della povera Chiara Poggi ad aprire anche un solo spiraglio a considerare un colpevole diverso da quello definito dai processi?
«Su questo vorrei dire che dobbiamo il massimo rispetto alla vittima e alla famiglia della vittima, che ha già sofferto un dolore immenso. Loro sono convinti della colpevolezza di Stasi. Sempio è il migliore amico del loro altro figlio, immaginiamo cosa potrebbe significare per loro scoprire che una persona accolta in casa loro nel migliore dei modi sia l’assassino della figlia. In questo momento nessuno può giudicare la famiglia Poggi».
Perché le sorelle Cappa, cugine della vittima, non sono state ancora sentite? Una di loro disse “se parlo io viene giù tutto”, o qualcosa del genere, con affermazioni del genere, perchè non ascoltarle?
«Sono già state sentite all’epoca, credo che siano state sentite di nuovo. Credo anche che la magistratura abbia gli elementi per valutare la loro posizione. Non so che ruolo possano avere in questa nuova inchiesta, se lo hanno avuto saremo i primi a raccontarlo, altrimenti vanno tenute in disparte per non stravolgere anche le loro vite».
Chi paga gli oneri dei vari consulenti della Procura che sta indagando su un caso chiuso quasi vent’anni fa?
«Paga lo Stato, quindi noi. Penso che i fondi spesi per svolgere indagini serie debbano essere messi a disposizione, perchè possono portare a elementi più certi».
Questa vicenda conferma che la giustizia italiana ha molte falle? In primis i tempi lunghi di ogni azione giudiziaria? Ma è così che funziona la giustizia, tra dubbi e imprecisioni?
«Purtroppo ci sono stati errori e si perde fiducia nella giustizia, con la politica che cannoneggia i magistrati, in particolari i pm. C’è però anche una tendenza a demolire processi che oltre ogni ragionevole dubbio sono andati da chi cerca visibilità, vedi per esempio i casi del tentativo di revisione del processo sulla strage di Erba, o la campagna sull’innocenza di Bossetti, che si sono persi nel nulla. Rimettere sempre in tutto in discussione non fa bene alla giustizia stessa».
«Garlasco, la nuova pista»: qui la versione video integrale dell’evento.
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1 ottobre 2025 ( modifica il 3 ottobre 2025 | 10:14)
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