“Nonostante l’annuncio di uno tsunami diplomatico fosse arrivato già da mesi, con tanto di data esatta, stamattina Gerusalemme sembrava sorpresa dalle prime ondate del maremoto”, ha scritto il 26 settembre sul quotidiano Yedioth Ahronoth Michael Milshtein, esperto israeliano di questioni mediorientali e direttore del Forum sugli studi palestinesi nel centro Dayan dell’università di Tel Aviv. Pur non trattandosi di un vero tsunami, secondo Milshtein le ondate sono sempre più alte e violente, e assumono forme diverse, come succede in mare.






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L’immagine più simbolica è arrivata nel pomeriggio dello stesso giorno, quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha pronunciato un discorso arrogante e autocompiaciuto davanti a un’assemblea generale delle Nazioni Unite mezza vuota. Centinaia di diplomatici, infatti, hanno abbandonato la sala prima del suo intervento, in una delle più clamorose manifestazioni politiche della crescente indignazione globale per il massacro compiuto a Gaza. E questo è accaduto pochi giorni dopo che una commissione d’inchiesta dell’Onu ha accusato Israele per la prima volta di commettere un genocidio nella Striscia. Israele non è uno stato paria o isolato, soprattutto grazie all’appoggio di quella che è – ancora – la prima potenza mondiale, gli Stati Uniti, e degli alleati europei che, in contrasto con la loro fretta di sanzionare la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, oggi esitano a toccare gli accordi commerciali con Israele. Ma nell’ultima settimana di settembre un senso di indignazione repressa si è cristallizzato nella politica, nell’economia, nella cultura e nello sport, alla vigilia del secondo anniversario dell’invasione della Striscia di Gaza successiva agli attacchi di Hamas.

La Slovenia, per esempio, ha dichiarato Netanyahu “persona non grata”, per “riaffermare il suo impegno a rispettare il diritto internazionale, i valori universali dei diritti umani e una politica estera coerente con i propri princìpi”, come ha detto la segretaria di stato del ministero degli esteri Neva Grašič. La Slovenia è uno dei quattro paesi (insieme a Spagna, Norvegia e Irlanda) ad aver riconosciuto lo stato di Palestina nel 2024. Il 25 settembre il suo governo, di centrosinistra, ha vietato l’ingresso nel paese al primo ministro israeliano, ricordando il proprio obbligo di arrestarlo se dovesse trovarsi nel territorio nazionale. Netanyahu è ricercato per crimini di guerra e contro l’umanità commessi a Gaza fin dal novembre 2024, quando la Corte penale internazionale (Cpi) ne ha chiesto l’arresto insieme al ministro della difesa dell’epoca Yoav Gallant e a tre leader di Hamas, uccisi da Israele nei mesi successivi.

Da allora Netanyahu ha visitato solo gli Stati Uniti (che non riconoscono la giurisdizione della Cpi) e l’Ungheria di Viktor Orbán, dopo essersi assicurato che nessun tribunale ungherese avrebbe spiccato un ordine d’arresto nei suoi confronti. Per questo motivo, in una nuova manifestazione del crescente isolamento dello stato ebraico, l’aereo ufficiale di Netanyahu, Ali di Sion, ha compiuto un’ampia deviazione sul Mediterraneo nella rotta verso New York, dove il primo ministro ha pronunciato il suo discorso all’Onu. L’aereo ha evitato di sorvolare lo spazio aereo di Francia e Spagna, nel timore che un problema tecnico lo obbligasse a un atterraggio di emergenza. Ha percorso seimila chilometri in più rispetto al percorso abituale, impiegandoci tredici ore invece delle consuete dieci.

Nei suoi viaggi precedenti negli Stati Uniti dopo l’ordine di arresto, Ali di Sion aveva già evitato lo spazio aereo spagnolo, perché il governo di Pedro Sánchez ha sempre ribadito che avrebbe dato applicazione alla richiesta di arresto della Cpi. Parigi, invece, aveva mantenuto un atteggiamento più ambiguo. Stavolta, alla luce di uno scontro sempre più aperto con Emmanuel Macron (che ha appena riconosciuto lo stato palestinese), Netanyahu ha voluto evitare anche la Francia, preferendo attraversare lo stretto di Gibilterra. L’ambasciata francese a Tel Aviv ha dichiarato che il governo israeliano aveva chiesto a Parigi un’autorizzazione di sorvolo, che era stata concessa, ma alla fine ha deciso di non usarla.

“Netanyahu ha dimostrato di non volere un dialogo con gli altri paesi”

Insieme all’Arabia Saudita, la Francia ha organizzato una conferenza per difendere la soluzione dei due stati, che la comunità internazionale sostiene sulla carta da decenni. Questa soluzione, però, si scontra con sfide senza precedenti: la costruzione sfrenata di colonie israeliane illegali, le crescenti invocazioni all’interno del governo israeliano ad annettere almeno parzialmente la Cisgiordania (ovvero dichiararla formalmente parte di Israele e non più un territorio su cui negoziare) e l’aggressività con cui Netanyahu afferma che non esisterà mai uno stato palestinese. “Ho un messaggio per voi: non succederà”, ha dichiarato con tono di sfida quando sono arrivati gli ultimi riconoscimenti dello stato di Palestina. Oltre al Portogallo, tra il 22 e il 23 settembre si è aggiunta un’altra decina di paesi, tra cui alcuni di grande peso come il Regno Unito, il Canada e il Belgio.

“Se questa decisione fosse inutile, senza fondamento né ripercussioni, gli israeliani non vi avrebbero prestato così tanta attenzione”, ha scritto il 25 settembre l’opinionista politico palestinese Mohammad Ayesh sul quotidiano Al Quds. “Tutto questo movimento globale rappresenta un cambiamento importante nell’atteggiamento politico internazionale rispetto a quello che sta succedendo nei Territori palestinesi occupati. Chi vive nei paesi occidentali lo percepisce chiaramente ogni giorno”. Ad alcuni governi serve per dimostrare di non essere immobili senza dover ricorrere a misure più drastiche (le sanzioni); mentre per altri è un modo di far presente ai palestinesi che alla fine di questa lunga notte ci saranno la pace e uno stato indipendente.

Il 26 settembre Netanyahu ha accusato sia gli uni sia gli altri di “promuovere il terrorismo” e di promuovere il messaggio che “uccidere gli ebrei porta ricompense”. Milshtein, invece, parla di una “verità complicata”: “Ribattere meccanicamente che si tratta di un premio per Hamas, di antisemitismo e di tentativi dei leader occidentali di evitare crisi interne, maschera una verità complicata: la maggior parte del mondo (eccetto Trump) non comprende quale sia la strategia di Israele, oltre a combattere guerre, in particolare quando si tratta della questione palestinese”.

Il cambio di tono è palpabile, anche tra i principali alleati di Israele. Dopo la Spagna, anche l’Italia ha inviato una nave militare per assistere la flotilla guidata da cinquecento attivisti e diretta a Gaza. Le navi non costituiscono una scorta e non si scontrerebbero con le forze israeliane, ma si tratta comunque di un gesto simbolico e inusuale. Giorgia Meloni, tra i leader europei più vicini a Israele, è intervenuta all’Onu mostrando disagio ed esasperazione. Israele, ha detto, ha trasformato la sua reazione agli attacchi di Hamas in “una guerra su vasta scala che sta colpendo smisuratamente la popolazione civile palestinese” e che “ha finito per violare le norme umanitarie, causando un massacro di civili”. Il presidente del governo spagnolo Pedro Sánchez ha infranto un tabù dell’Unione europea parlando di genocidio.

“Davanti alle Nazioni Unite Netanyahu ha dimostrato ancora una volta di non avere un messaggio per il mondo né di volere un dialogo con gli altri paesi”, ha scritto il 27 settembre la corrispondente diplomatica del quotidiano israeliano Haaretz, Liza Rozovsky. “Le sue speranze, i suoi timori e i suoi sforzi sono rivolti in una sola direzione: la Casa Bianca, da cui il governo israeliano è ormai completamente dipendente”.

Il cambiamento non si limita alla politica. Il 25 settembre il gigante tecnologico Microsoft ha annunciato di aver smesso di fornire alcuni servizi di archiviazione cloud e di intelligenza artificiale che consentivano all’unità di élite israeliana di sorvegliare in massa i civili palestinesi.

L’attrice statunitense Jennifer Lawrence ha dichiarato, nel corso del festival di San Sebastián, che “quello che sta succedendo a Gaza non è altro che un genocidio”, un termine che alcuni mesi fa era usato solo dagli artisti più legati alla causa palestinese, come Susan Sarandon, Mark Ruffalo o Javier Bardem. Due settimane prima 4.500 attori di Hollywood avevano firmato un manifesto per la pace in Palestina che contiene parole come “razzismo” e “disumanizzazione”.

Un altro terreno di scontro è l’Eurovision. L’Unione europea di radiodiffusione (Uer), che organizza l’evento, ha convocato una riunione straordinaria per anticipare all’inizio di novembre la votazione sulla partecipazione di Israele, dopo che Spagna, Paesi Bassi, Irlanda, Slovenia e Islanda hanno avvertito che boicotteranno il festival se non sarà escluso. Il 18 settembre più di 50 eurodeputati hanno chiesto all’Uer di espellere Israele dall’Eurovision, come aveva fatto con la Russia nel 2022 dopo l’invasione dell’Ucraina.

Nell’arco di appena due settimane è cambiato anche il dibattito sull’espulsione dai tornei internazionali della nazionale maschile di calcio israeliana (impegnata nella fase di qualificazione per il mondiale del 2026) e delle categorie inferiori, oltre a quella dei club nazionali (al momento il Maccabi Tel Aviv, che compete in Europa league). L’Uefa e la Fifa stanno valutando la possibilità e hanno ricevuto anche una richiesta scritta del presidente della federazione turca İbrahim Hacıosmanoğlu. Secondo fonti citate dall’agenzia Associated Press, la maggioranza dei venti componenti del comitato esecutivo dell’Uefa voterà presto a favore dell’esclusione.

Da quando le continue proteste contro la partecipazione della squadra Israel-Premier Tech hanno provocato la fine anticipata della Vuelta a España, la corsa ciclistica che si disputa in Spagna, lo sponsor principale della formazione, Premier Tech, sta imponendo un cambio di nome, perché ritiene che quello attuale, associato a un paese la cui immagine è in caduta libera, “non è più sostenibile”. ◆ as

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