L’abilità nel trasformismo l’ha ampiamente dimostrata nella serie tv Penguin nei panni del nemico di Batman (prima dell’arrivo di Batman), il volto butterato praticamente irriconoscibile, il corpo menomato, e quel ruolo di cattivo più da mafioso d’America che da antieroe da fumetto. Un ruolo da Emmy, se non fosse che il caso Adolescence gli ha portato via la ribalta. E ora per Colin Farrell, 49 anni, si parla addirittura di interpretazione da Oscar per la sua esuberante incarnazione del truffatore protagonista di Ballad of a Small Player, diretto dal regista premio Oscar Edward Berger (Niente di nuovo sul fronte occidentale, Conclave), presentato in anteprima al festival di San Sebastian e in uscita su Netflix il 29 ottobre.

Doyle è fuggito dal Regno Unito fregando i soldi a un’anziana molto ricca e si è rifugiato nel paradiso artificiale di Macao, patria dei casinò d’Oriente dove il film è stato girato. Qui si aggira da un tavolo di baccarat all’altro, sperando nel definitivo colpo di fortuna, ma continua a perdere, finché si imbatte in Dao Ming (Fala Chen), che non si capisce perché gli dà quella fiducia che altri gli negano. Sempre più inguaiato, in una sorta di stato di alterazione permanente multicolore, che richiama atmosfere sospese tra Wong Kar-wai e Paura e delirio a Las Vegas, tra pantagrueliche mangiate al buffet ed evocazione di spiriti, Doyle è messo alle strette quando un’investigatrice privata (Tilda Swinton) arriva per recuperare la somma rubata.

L’INTERVISTA

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Com’è stato entrare nella mente di un ludopatico?
«Tutti sanno che nel mio passato c’è una dipendenza dalle droghe e dall’alcol. E anche se non c’è bisogno di essere stati tossicodipendenti per interpretarne uno, la chiave per entrare nei panni di Lord Doyle non è stata la sua assuefazione al gioco d’azzardo quanto il suo egocentrismo e la capacità di manipolare le persone per migliorare la propria situazione».

Come si è preparato?
«La vita di Doyle è un disastro: ha lasciato alle spalle tutto ciò che conosceva e amava ed è andato a Macao, anche se non sa esattamente perché. Per prepararmi ho trascorso del tempo con dei giocatori d’azzardo a Macao: una sera sono stato in una saletta privata dove due giocatori in quattro ore hanno bruciato 24 milioni di dollari. Per fortuna quel tipo di dipendenza non mi ha mai preso: ho bruciato il mio cervello e rovinato il mio corpo, ma mai prosciugato il mio conto in banca».

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Per lei chi è questo personaggio?
«È un essere spregevole, un’anima che si è persa in una sorta di ambiente ultraterreno, in cui la posta e l’energia in gioco sono incredibilmente alte. È un uomo sull’orlo del precipizio, con una bussola morale inesistente, che come tutte le persone afflitte da una dipendenza vive in un mondo di bugie estreme».

Doyle cerca un colpo di fortuna. Lei crede nella fortuna?
«Penso che la fortuna o la sfortuna dipendano dai punti di vista. So per certo che non possiamo decidere gli accadimenti della vita, ma possiamo scegliere come affrontarli. Io ho sempre cercato di fare le scelte migliori possibili, e credo che l’unico modo di farlo sia essere fedeli a se stessi. Quanto a Doyle la sua aspirazione è un vicolo cieco, perché cerca conferme del valore della propria esistenza in qualcosa di esterno. Tutti sappiamo quanto le cose materiali siano belle, e io stesso ho avuto il privilegio di raggiungerle, ma la felicità vera deriva da una connessione con se stessi e non si può cercare altrove».

Come è stato girare a Macao?
«Divertente, perché oltre alla parte spettacolare dei casinò, delle luci, del rumore, ho scoperto anche dei luoghi più appartati nell’isola di Coloane, dove ci sono le vecchie case di pescatori: spesso nei fine settimana andavo lì, mi sedevo in un bar con la mia sceneggiatura, una ciotola di noodles, delle sardine e un caffè. E mi sentivo in paradiso.