Luigi carissimo, poco meno di un mese fa amici del manifesto mi hanno chiesto di recensire Il nespolo. La richiesta e le motivazioni che allegavano – detto in tutta franchezza – mi hanno commosso. Con l’irresponsabilità della commozione, senza aver letto una riga del libro, ho risposto di sì. La lettura delle bozze ha poi confermato e moltiplicato pensieri che mi erano passati per la testa leggendo i tuoi due libretti precedenti. Ho cominciato a segnare a margine le bozze e a schedare confusi appunti. So da tempo (e per sempre) come l’esercizio dello stare al mondo costringa di quando in quando a schiacciare il naso sul cristallo gelato della disperazione; il fatto che qualcosa del genere mi sia capitato nelle ultime tre settimane («tra soffrire e veder soffrire non c’è nessuna differenza» scriveva bene Schopenhauer), se giustifica in qualche modo il ritardo, non ho pensato affatto mi esonerasse dall’impegno di recensire il tuo libro: libro, oltre tutto, di così sobria e perfetta disperazione. Ma mi sto accorgendo che non ci riesco. Proverò a scriverti come mai non ci riesco, e questa scrittura privata sarà tutto quanto sarò stato capace di produrre con onestà per i lettori del manifesto.

Intanto, la struttura del libro è stranissima e piuttosto allarmante. Provo a riassumere? Giano, a cent’anni, siede sotto un nespolo e lascia vagare pensieri e ricordi, che figurano intercalati dalla registrazione di eventi pubblici e privati caduti fra il giugno del 1997 e il novembre del 1999. La coincidenza esatta di molti pensieri e moltissimi ricordi di Giano con i tuoi, come li abbiamo frequentati in Servabo e nella Signora Kirchgessner, e la giunta di due impronunciabili lutti la cui credibilità può essere addebitata soltanto alla fantasiosa e meticolosa efferatezza del reale, sembrerebbero autorizzare la semplificazione per cui Giano sei tu. Non sei Giano. Giano alla fine muore, tu scrivi Il nespolo. Identificarvi sarebbe cancellare il libro, retrocedendolo ai suoi antefatti autobiografici (autobiologici) e all’impossibilità di essere scritto. Il libro invece è stato scritto, si presta a moltiplicarsi nei suoi lettori, e voi due siete la stessa persona non più di quanto il principe Myskin sia Dostoevskij.

Certo Il nespolo sfida (e rimpiange) il silenzio da cui sbuca a stento con vertigine e furore, sconta il rischio di non esserci e l’arbitrio assoluto di esserci, li confessa instancabilmente, nel confessarli li sfata e timidamente pronuncia la propria inevitabilità. In questo, d’altra parte, Il nespolo esaspera e assolutizza prerogative segrete di ogni vero racconto scritto da due secoli in qua. La morte di Giano è la metafora del suicidio che tu sostituisci con questo libro.

A pagina 75 contesti alla saggezza amara di Senior – il fratello maggiore morto in guerra – la massima: «non esistono persone insostituibili o vuoti incolmabili»: pensare questo di sé (non sono insostituibile, lascerò un vuoto colmabilissimo) è il minimo della decenza. Ma tu sai atrocemente bene, come nel tempo della nostra vita, che include una insostenibile successione di morti (esclusa la nostra), per quanto irrisoria finisca generalmente per essere l’incidenza sul mondo delle azioni e dei pensieri di ogni singola persona, per quanto praticamente inutile risulti alla resa dei conti il suo corto volo sulla terra, l’esperienza primaria del dolore insegna a chi sopravvive che nessuno è sostituibile, che nessun vuoto si rimargina. La misteriosa e definitiva unicità della persona che abbiamo amato e con cui non possiamo più parlare non è negoziabile. E questo libro è un libro-persona. Non proprio indispensabile, come ogni persona: insostituibile, come ogni persona.

Sembra blandamente ragionevole, in un paese in cui quasi tutti scrivono e pochissimi leggono, sostenere che «basta entrare in una biblioteca comunale e guardare le vetrine di un cartolaio per capire che il mondo non ha bisogno di un libro in più»: e più esatto sarebbe forse dire che il mondo ha bisogno (vàlli a capire, i bisogni del mondo!) di molti libri in meno… Ma scriverlo nelle prime pagine del tuo libro è quanto sostenere che basta viaggiare in metropolitana nell’ora di punta o assistere in televisione allo sbarco di un nugolo di profughi da una carretta del mare per capire che il mondo non ha bisogno di una persona in più (o magari che avrebbe bisogno di molte persone in meno). Per quanto schifosa sia la vita, un aforisma del genere non ha mai visitato né te né me. Abbi l’umiltà di non applicarlo al tuo insostituibile libro-persona. E potrei, io, recensire una persona?

Le autobiografie, beninteso, si possono recensire. Anzi, spesso, non fanno che promuovere recensioni, essendo a loro volta una autorecensione che mendica consensi. Ma per scrivere un’autobiografia bisogna bene o male aver vissuto una biografia, in altre parole aver consumato la vita a braccare con la lingua di fuori i portentosi progressi di una identità che cerca se stessa e, alla buonora, ha finito per trovarsi.

Manifestamente non è il caso tuo. Ho idea che tu abbia cercato per tutta la vita di sperperarla, la tua identità timida per eccesso. Così Il nespolo, che disordinatamente e acronicamente ne testimonia qualche smodatezza, e registra la tua costante insofferenza di te e di lei, non è abilitato ad essere un’autobiografia, né più né meno degli altri tuoi due libri Boringhieri: semmai, meno. E in questo senso (non c’è una caccia all’io con la quale autore e libro dovrebbero misurarsi e in ordine alla quale noi potremmo giudicarli), Il nespolo non offre la falsariga indispensabile per una recensione come si deve. Anche in questo senso.

E d’altronde è innegabile che Il nespolo presenti un campionario di «massime, sentenze, aforismi, epitaffi, epigrammi», come «andavano di moda sulle strisce di carta velina che avvolgevano i cioccolatini», a quanto si legge a pagina 85. Un recensore onesto dovrebbe assumersi l’onere di dire al proposito la sua, assentire qua, dissentire là. Purtroppo quelle «massime, sentenze» eccetera – chiamale come credi! – non sono opinabili, perché non sono opinioni. In 113 pagine non ho letto un’opinione. Sono percezioni, sono pensieri, o meglio detto, sono emozioni di pensiero, e in quanto tali potrebbero rivendicare il titolo alla profondità che tu contesti al vanitoso rondò dei «pensieri che continuano a pensare se stessi ruotando in superficie». In ogni caso non si prestano alla confutazione o all’approvazione; salvo incorrere in un unico genere di censura: la volgarità, la più diffusa (e imperdonabile) delle volgarità: la volgarità dei sentimenti. Non serve dire ai lettori del manifesto che Pintor, il furente, lo spinoso, il saturnino Pintor è una delle persone meno volgari che sia dato conoscere nel tempo presente. La constatazione della tua indifesa assenza di volgarità – non fatico a confessartelo – mi ha spesso reso meno penoso sopportarmi uomo qui e ora. E credo di non essere l’unico.

Che poi nei tuoi libri, dove non hai remore ad ammettere di aver molto fallato, di non aver fatto praticamente altro in vita tua che avventarti contro mulini a vento, non c’è traccia nemmeno dell’estremo, tenue, alle volte fin quasi elegante esercizio di spocchia – frequentissimo peraltro a sinistra – di chi nell’esercizio pubblico dell’autodenuncia, magari nel vezzo dell’autodeprecazione, rivendica a gran voce la continuità del proprio magistero. Non ti recensirò. Recensire emozioni versate nelle mezze verità dell’aforisma espone al rischio di sovrapporvi le proprie (rischio che mi accorgo di non riuscire ad evitare nemmeno per lettera) o, ben che vada, di parodiarle sommessamente senza l’inappellabile dignità dello stile. E senza stile, in un libro non c’è né pensiero, né emozione, né affetto, né moralità.

Ecco, se un’ombra di recensione volessi a tutti i costi spillare dalla lettura del Nespolo verterebbe su certe singolarità stilistiche ridotte ad un catalogo minimo e sommario. Usi due soli segni di interpunzione: il punto e la virgola. Stile soggiuntivo, che si ricusa alle tortuose ambizioni della organizzazione concettuale. Sì, ma le virgole son poi il minimo indispensabile, e lo stile soggiuntivo procede per nuclei compatti che non dissociano l’emozione dall’idea, obbedendo alla disperata passione morale, alla disperazione morale che le fonde. Rinunci a tutti gli espedienti grafici della designazione di valore (né dio, né l’ecclesiaste, e nemmeno il comintern sono maiuscoli): le maiuscole non fanno suono. Rifiuti tutte le armature tipografiche del pensieroso, del dotto, del sarcastico e dell’allusivo: non c’è un corsivo nel libro, e non appaiono mai le famigerate virgolette della satira a consumo, che scagliano il sasso e ritirano la mano, lo schifoso «come diceva quello», «come usa dire ma io non lo sto dicendo». Scrivi, e si sente la tua voce. Nell’orizzonte delle nostre lettere, che pullula di moralisti facili alle indignazioni del buon cuore e corrivi all’abbreviazione criminale del pensiero (come dice un amico), il moralismo rapsodico dei tuoi tre libri si isola proprio per la severa leggerezza dello stile, che imprime all’impazienza di sé l’inesplicabile eticità di un fraseggio musicale sospeso sulla perfezione.

Alle volte sembri esagerare. Inoculi nella tua prosa versi di poeti di cui non fai il nome, senza nemmeno isolarli con virgolette-caporale (tranne, mi sembra, in un caso), te ne appropri, li assimili. Così non virgoletti il verso omerico (pindemontiano) che il ragazzetto mormora in una sala affollata assistendo alla versione cinematografica dell’incontro di Ulisse col vecchio cane di casa: «ed ei di zecche pien corcato stava». I grandi lo tacitano sghignazzando. «Un minuto dopo si sfilò dalla sedia, attraversò a tentoni il buio della sala», scrivi, e aggiungi: «e fuggì via in silenzioso pianto»: uno dei più semplici e misteriosi e splendenti endecasillabi del Novecento. Io lo debbo isolare fra virgolette. Tu puoi permetterti di non farlo, e lasciare che si nasconda nella tessitura della tua prosa.

Nel Nespolo c’è una ripetizione. Al capitolo del novembre 1997 (il libro è distribuito per mesi: è una specie di mensuario) sta scritto, a margine della notizia della morte di Junior, il secondogenito di Giano: «Che rapporto c’è tra il bambino biondo che usciva di corsa con la sorella (…) e l’uomo sepolto anzitempo nel cimitero della città lontana? Un rapporto strettissimo, la stessa persona, lo stesso bambino». Nel capitolo del novembre 1999, a margine della notizia della morte di Beba, la primogenita di Giano, sta scritto: «Che rapporto c’è tra la bambina che guardava gli aquiloni e la donna incenerita in quella piccola urna? La stessa persona, la stessa bambina». Discutevano i vecchi teologi sull’età che sarebbe toccata alle anime per l’eternità: Agostino sosteneva che avrebbero avuto in eterno gli anni che contavano all’atto della morte, Tommaso propendeva, a qualunque età fossero morti, per il massimo stadio di perfezione che si dà nel pieno della vita. Ma il cuore di un padre sa che l’unico aldilà immaginabile per i figli perduti (per tutti i figli perduti da tutti) è un limbo in cui ognuno torna ad essere il bambino perpetuo che si era dimenticato di essere crescendo. E che in quel limbo, «rimbambinendo», brancola lui stesso, vecchio, al buio, parlando da solo.

Però nemmeno quella solitudine è perfetta, se la solitudine è l’unica esperienza radicale che tutti gli esseri umani condividono, e se una volta può darsi la strana dolcezza di ascoltare con affetto e stupore e riconoscenza la voce del vecchio che parla da solo per tutti. Non è vero che la solitudine non ha amici. Grazie, Luigi.

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