I ritratti de Il bosco del futuro, giunti alla 25ᵃ puntata, sono la normale prosecuzione delle interviste raccolte dal giornalista Paolo Griseri. I suoi 39 protagonisti de Il bosco dei saggi sono diventati un libro che ricorda l’autore, scomparso a ottobre 2024.

Per Serena Tosa il punto di non ritorno risale a una notte di ottobre del 2007. «Papà è morto all’improvviso. Avevo 28 anni. Con mia mamma e mio fratello Fabio ci siamo trovati in poche ore a dover decidere che cosa fare: vendere l’azienda, nominare un amministratore delegato che la guidasse o portare avanti il suo progetto da soli». La decisione era inevitabile, quasi. Quel che li atterriva era la paura di non farcela, non essere all’altezza: «Eravamo entrambi in azienda da un anno, pensavamo di aver davanti un tempo lungo per imparare da nostro padre. Invece il tempo era finito, toccava subito a noi».

Beppe Tosa aveva aperto la fabbrica nel 1979, a Cossano Belbo, nella Langa che scivola verso l’Astigiano. «Era nel cortile di casa. Sono nata e cresciuta qui, ho sempre respirato quell’aria. Trascorrevo le giornate in quello stabilimento che vedevo ampliarsi poco alla volta. Il magazzino era il parco giochi dove si scatenava la mia immaginazione». Suo padre era partito con una manciata di collaboratori. Quando è morto erano diventati 74 e l’azienda fatturava 14 milioni; adesso, quasi vent’anni dopo, i dipendenti sono 150 e per quest’anno si prevede un fatturato intorno ai 29 milioni.

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Il gruppo è un’eccellenza mondiale del packaging: realizza macchine per imballaggio, avvolgitrici, ha venduto 10 mila macchinari a 4.500 clienti di 115 Paesi. Forbes ha inserito Serena Tosa fra le cento donne italiane di successo del 2024. «Siamo rimasti ancorati alle origini. Siamo frutto di una storia, di un percorso. Le idee di mio papà sono cresciute, sono state realizzate e poco alla volta sono subentrate le nostre. Mamma è ancora presidente del gruppo, Fabio ed io amministratori delegati. Siamo diversi ma complementari, cosa che ci permette di portare avanti progetti complessi. Da sola sarebbe stato impensabile».

Ha l’aria di un destino cui non si sfugge, e invece «mi sono sempre immaginata altrove: in un altro Paese, a fare un altro lavoro. Avrei voluto occuparmi di marketing e comunicazione. Dove non so. Mi piace il mondo, appena posso scappo a conoscerne un pezzo, ma al tempo stesso mi stufo facilmente».

Una laurea in Economia aziendale, i primi tre anni ad Asti gli ultimi due a Torino. Un master, uno stage in Armando Testa. E soprattutto l’Argentina. «Ci ho vissuto due mesi per scrivere la tesi: l’economia di un Paese martoriato, instabile, abituato a oscillare tra democrazia e totalitarismo». Il punto di approdo è stato un altro: «Mi hanno segnata le persone: il dirigente che da un giorno all’altro non poteva più muovere un dollaro perché era crollato tutto, il manager finito a guidare un taxi, chi ha perso tutto a causa delle proprie idee. Ho capito che cosa significa rialzarsi, reinventarsi. E l’ho fatto mio: mai sedersi, studiare, progettare, immaginare. Anche papà era così». Lei, forse, ha cominciato a diventarlo a Buenos Aires.

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Da quando è al timone del gruppo ha navigato tra una crisi e l’altra: «Nel 2008 i mercati finanziari, nel 2009 un’altra crisi, nel 2012 l’Italia a rischio tracollo, quindi il Covid, ora le guerre. In questi 18 anni non ho mai lavorato in una situazione di equilibrio: quella lezione mi è servita molto, sono abituata a convivere con l’idea che tutto possa cambiare da un momento all’altro». Lei ha provato a fare lo stesso: «Abbiamo investito su tecnici, ricerca, innovazione, aperto in Germania e Spagna, in Francia eravamo già. Nuove filiali sono all’orizzonte. Abbiamo costruito il nuovo stabilimento, rilevato la storica carpenteria che ci faceva da fornitore».

I numeri, oggi, hanno doppiato il punto di partenza. Eppure, almeno nello spirito di chi la guida, questa rimane un’azienda-famiglia. «Quand’ero piccola venivano tutti a guardare le partite dei mondiali di calcio qui in cortile. Per i 40 anni di papà hanno organizzato una festa a sorpresa». Oggi quel modo di vivere la fabbrica è declinato nel segno di due quarantenni, delle loro passioni e di quelle dei loro lavoratori. La pausa pranzo è di un’ora per chi mangia in refettorio e di due per chi torna a casa. C’è l’area relax, dopo pranzo c’è chi si corica sui divanetti. C’è una biblioteca, aperta alla comunità, collegata con quella della Fondazione Cesare Pavese. Gli spazi comuni ospitano spettacoli, presentazioni di libri: l’ultimo è stato un monologo di Alessandro Perissinotto. Si organizzano eventi per le scuole.

Per i dipendenti si tengono corsi di yoga, di francese, inglese, di primo soccorso, c’è uno sportello di consulenza che aiuta a sbrigare pratiche burocratiche di vario genere. «Rendere piacevole l’ambiente dove passi gran parte delle tue giornate. Un posto dove ti senti accolto, non dove credi di doverti guardare le spalle. Usare gli spazi che abbiamo e aprirli al territorio. Anche questo ce l’ha insegnato nostro padre. Lui si è speso molto per la comunità, quando è mancato era al secondo mandato da sindaco di Cossano».

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La famiglia è storicamente legata alla Fondazione ospedale Alba-Bra, del cui cda Serena Tosa ha fatto parte fino a pochi mesi fa. Lei stessa presiede Fondazione 1001, un ente di comunità nato da un anno per volontà di dieci aziende con l’obiettivo di indagare i servizi presenti sul territorio e soprattutto immaginare i bisogni futuri. «Dobbiamo avere uno sguardo a 15-20 anni per mantenere vivi questi luoghi. Lo stesso vale per le imprese».

La sua è arrivata a un punto di svolta, anche generazionale: «Nei prossimi mesi andranno in pensione i primi collaboratori assunti da mio padre». Un’epoca che si chiude. O forse no. Qui tutto torna, sempre: «Questa resta l’azienda sognata e costruita da papà. Lo sento qui dentro, è presente in tutto: nelle macchine che ha progettato, nei brevetti ancora attivi, sulle pareti dove abbiamo stampato le foto storiche. Non ho mai avuto un distacco, anche nei momenti felici: ho lavorato fino a pochi giorni prima di partorire i miei tre figli e sono rientrata pochi giorni dopo. A 18 anni dalla sua morte devo ancora elaborare il lutto. Mi è mancato il tempo. Prendere il suo posto è stata la scelta più faticosa – in termini di energie – della mia vita. Ma non me ne sono mai pentita».