All’ingresso dell’Inalpi c’è un cartellone con su scritta una frase di Winston Churchill: «Alcune persone vedono l’impresa privata come una tigre feroce da uccidere subito, altri come una mucca da mungere, pochissimi la vedono com’è in realtà: un robusto cavallo che traina un carro molto pesante». Eccolo, appeso al muro, il sentimento dell’industria. «Il prossimo anno compiremo sessant’anni, siamo arrivati a fatturare oltre 300 milioni di euro ed esportiamo in 60 Paesi nel mondo», dice Ambrogio Invernizzi, presidente delle storiche latterie di Moretta, nel Cuneese. Guida l’azienda assieme ai fratelli Pierantonio e Giovanni e ai cugini Marco e Mauro Barattero, ha in mano un piano di crescita che punta ad arrivare a 1 miliardo di fatturato nel giro di cinque anni e un obiettivo: allargare questo polo su cui sventola la bandiera dei pirati. Anche attraverso le acquisizioni.
Da dove si parte?
«La prossima settimana firmeremo l’atto per l’acquisto del gruppo Marenchino, storico produttore di formaggi di Savigliano. Ma abbiamo anche altri obiettivi, sia in Italia sia all’estero».
Qual è il peso dell’export ?
«Vale circa il 70% del nostro fatturato. Lavoriamo in Cina, a Singapore, a Taiwan ma anche in Islanda e a Panama, oltre che in Europa».
I dazi di Trump vi stanno danneggiando ?
«No, perché sfortunatamente non siamo ancora entrati nel mercato degli Stati Uniti anche se abbiamo superato l’audit della Food & Drug Administration».
Su cosa puntate per crescere?
«Da tempo lavoriamo sull’innovazione perché siamo convinti che la concorrenza si batta su quel terreno. Da poco abbiamo avviato una collaborazione con l’Istituto di Medicina dello Sport di Torino dal punto di vista della ricerca, per produrre del cibo buono ma funzionale. Penso al formaggio senza fosforo, per entrare in un segmento di mercato inedito, tra la nutrizione e la farmaceutica. Si chiama nutraceutica».

Quanto vale il vostro polo di Moretta?
«Circa il 40% del latte piemontese. Pochi anni fa abbiamo inaugurato la nostra seconda torre, e ora stiamo lavorando per trasformare la prima, per produrre proteine del latte e spostarci su cibo ad alto valore aggiunto».
Come ha visto cambiare i consumatori?
«Sono sempre più attenti alla salute. Non si tratta solo di cercare qualcosa di buono, ma prodotti che facciano bene».
Torniamo a Churchill. Da imprenditore di una delle regioni più dinamiche d’Italia, pensa che per le imprese ci siano ancora troppi freni?
«C’è una fortissima burocrazia. Molto peggiore rispetto ai dazi di Donald Trump. L’Europa è un mercato di consumo da 300 milioni di persone. Per me significa fare anche dodici, tredici packaging diversi. Sul mercato americano non è così. E le leggi cambiano da un Paese all’altro».
Avete mai avuto la tentazione di cedere il controllo dell’azienda?
«Le racconto un aneddoto. Tre anni fa si è presentato un grosso gruppo israeliano deciso a rilevarci. La proposta era molto buona. Ci siamo incontrati, il giorno dopo li abbiamo invitati a pranzo e abbiamo fatto venire anche i nostri figli. Abbiamo chiesto a quei manager: “Qual è il valore del futuro di questi ragazzi? Noi stiamo lavorando per dargliene uno”. Hanno sorriso e mi hanno detto: “È il modo più elegante per rifiutare un’offerta che abbiamo mai visto”».
La quotazione può essere una strada?
«Ogni tanto ci pensiamo. Può essere un modo per dare più libertà alle nuove generazioni. Inoltre, stiamo lavorando per managerializzare l’azienda. Oggi abbiamo sette dirigenti e due consiglieri esterni».
Il vostro nome è sul Palasport di Torino, oggi Inalpi Arena. Quanto è importante?
«Dopo le Atp Finals il nostro marchio è cresciuto del 25-30%. Fare operazioni di immagine, nel modo giusto, è una strategia efficace».
I dati dicono che questo territorio ha una marcia in più. Perché?
«C’è molta imprenditoria. I cuneesi lavorano tanto, anche se comunicano poco. Questa è una delle province più ricche d’Italia, con la disoccupazione ai minimi e un numero importante di banche di credito cooperativo».
Chi sono i suoi modelli?
«Nel settore lattiero-caseario mi piacciono molto i francesi del Nord, produttori che fanno della qualità il loro marchio. E poi i grandi innovatori. Penso a Marchionne, alle operazioni fatte alla Fiat».
Lo stesso Marchionne che diceva: chi comanda è solo.
«Noi abbiamo una forza, essere una famiglia ma siamo anche amici».
È dura trovare personale?
«Molto. Al momento siamo 450. E stiamo facendo un accordo con il Politecnico di Torino per inserire borsisti e ricercatori».
Cosa la rende più orgoglioso?
«Abbiamo un nuovo laboratorio, dove lavorano trenta persone, il 90% donne, tutte laureate. Credo sia uno dei migliori d’Europa. Tra due o tre mesi saremo l’unica azienda a recuperare tutta l’acqua di lavorazione: sarà un unico flusso. Penso che quello legato alle risorse idriche, nei prossimi anni, sarà uno dei temi chiave del futuro».